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La riproduzione dei documenti ai tempi dell'analogico

Lavorare con la pellicola

I cosiddetti nativi digitali, ovvero le persone nate, più o meno, dopo il 1985, faticano forse a immaginare quanto fosse macchinoso ottenere un microfilm, ovvero la riproduzione su pellicola di un massiccio numero di documenti.

La tecnologia digitale ha spazzato via il tradizionale processo analogico, che era basato su tre passaggi: esposizione, sviluppo e stampa. Ha lasciando sopravvivere solo il primo di essi, ma in maniera assai diversa da un tempo.

Qui di seguito racconto il sistema che usavo per ottenere economicamente un gran numero di riproduzioni fotografiche di testi e immagini.

Esposizione

Il primo passo era procurarsi la pellicola a metri. C'erano in commercio bobine di 17, 30 e 60 metri, con cui si potevano caricare parecchi rullini che, acquistati singolarmente, sarebbero costati un patrimonio.

Anche la bobinatrice Z60 non era propriamente a buon mercato, ma dovendo realizzare migliaia di fotogrammi il risparmio era assicurato.

La mia bobinatrice Z60 (60 stava per 60 metri, Z non l'ho mai saputo) è riprodotta in alto a sinistra. Il suo funzionamento era semplice: prima di tutto occorreva introdurre la bobina di pellicola vergine nella scatola circolare, lasciandone sporgere solo una breve estremità. Successivamente questa estremità andava agganciata all'anima del rollino (in alto a destra mostrato sia carico, sia smontato) che veniva poi alloggiato dentro l'avvolgitore, dotato di manovella, della bobinatrice.

Tutto questo, naturalmente, andava fatto nella più totale oscurità. E quando dico oscurità, la parola va presa alla lettera. Buio totale. In alcuni film, per esempio, capita di vedere alcune scene girate in camera oscura, un locale illuminato dalla debole luce di una lampadina rossa, destinato alla stampa delle fotografie. Le scene, di solito, sono abbastanza verosimili, ma bisogna tenere presente che si riferiscono sempre alla produzione di stampe su carta, che era un materiale non troppo sensibile alla luce. Per la sensibilissima pellicola, invece, era indispensabile lavorare sempre in perfetta oscurità, pena la rovina di tutto il materiale fotografico.

In maniera piuttosto rudimentale potevo verificare il numero di fotogrammi bobinati di volta in volta nel rullino, come si vede dall'immagine in basso a destra. Con una scatola da trenta metri, per esempio, ricavano diciannove rullini, e siccome in un rullino si potevano stipare fino a quaranta negativi, alla fine saltava fuori abbastanza pellicola per fare non meno di 750 scatti.

Sviluppo

Una volta esposta, la pellicola andava sviluppata. L'anima di tutto il processo era la sviluppatrice, ovvero un contenitore cilindrico di plastica dove mettevo prima la pellicola esposta e poi il liquido necessario per lo sviluppo.

Ora, siccome la prima operazione andava svolta ovviamente al buio, mentre la seconda non poteva che essere realizzata alla luce, perché sarebbe stato troppo complicato svolgerla nell'oscurità, era necessario che la sviluppatrice permettesse lo scambio di liquidi con l'esterno, ma non quello di luce. Questa, in parole povere, era la differenza cruciale fra una sviluppatrice e una comune pentola col coperchio.

Qui sopra, a sinistra, ho riprodotto la mia sviluppatrice grande, che era in grado di contenere la pellicola di tre rullini. A destra, invece, si può vedere quella piccola, aperta, con un rocchetto di caricamento già in posizione, e uno smontato, più vari accessori, fra i quali sarebbe stato giusto aggiungere anche un termometro al decimo di grado.

La pellicola non poteva essere introdotta direttamente all'interno della sviluppatrice, perché lasciata a se stessa tendeva inevitabilmente ad arrotolarsi, impedendo che il liquido di sviluppo potesse poi impregnarla in modo adeguato. Certo, si sarebbe potuto mantenerla tesa con qualche marchingegno, ma di norma la pellicola di un rullino era lunga oltre un metro e mezzo, e questo avrebbe comportato la necessità di disporre di una sviluppatrice lunga almeno altrettanto. Troppo scomodo, troppo costoso.

La soluzione di questo problema consisteva nell'avvolgere a spirale la pellicola, evitando accuratamente qualsiasi contatto, anche minimo, dimodoché il liquido di sviluppo potesse poi svolgere correttamente la sua funzione.

È evidente che l'operazione andava eseguita al buio, e questa necessità l'avrebbe resa praticamente impossibile, se il rocchetto che doveva ospitarla non avesse avuto un ingegnoso meccanismo di caricamento che consentiva di eseguirla ‒ è proprio il caso di dirlo ‒ a occhi chiusi.

Era sufficiente spingere l'estremità della pellicola oltre le due sporgenze di guida, fino alle due sfere d'acciaio imprigionate poco oltre, e il gioco era fatto. Siccome la spirale era costituita da due parti che potevano ruotare di quarantacinque gradi, l'una rispetto all'altra, era sufficiente eseguire una serie di rotazioni e controrotazioni per vedere ‒ si fa per dire ‒ la pellicola avvolgersi perfettamente sulle guide a spirale del rocchetto. Le sfere d'acciaio, infatti, trascinavano con sé la pellicola, durante la rotazione, ma non permettevano che tornasse indietro durante la controrotazione.

Una volta che pellicola si trovava correttamente avvolta nel rocchetto, e quest'ultimo era stato introdotto nella sviluppatrice, si poteva accendere la luce e procedere allo sviluppo vero e proprio.

Bisognava versare una soluzione titolata di prodotto per lo sviluppo, a una precisa temperatura e per una durata altrettanto precisa. Poi si lavava risolutamente e a volontà, purificando l'acqua con un apposito filtro, per evitare che particelle estranee graffiassero la delicatissima gelatina umida di cui erano fatte le foto. Infine si lasciava asciugare.

Stampa

L'ultimo passaggio consisteva nella stampa del negativo. Grazie a un apparecchio denominato provinatrice potevo ottenere piccole stampe della dimensione dei fotogrammi, che venivano chiamate provini o contatti.

La provinatrice era costituita da una soffice base di schiuma plastica, sulla quale veniva appoggiato un foglio di carta fotografica vergine di 24 x 30 centimetri, e da un telaio mobile di vetro, incernierato alla base.

Sul telaio vi erano delle sottili tasche di plastica, alle quali era possibili agganciare la pellicola ridotta in strisce di sei fotogrammi. Una volta che le strisce erano state disposte sul telaio si poteva chiuderlo sulla base, esercitando una certa pressione sulla schiuma plastica, in modo da ottenere un perfetto contatto fra la pellicola e la carta, da cui uno dei nomi di questo tipo di stampa

A questo punto accendevo la luce per qualche secondo, per esporre la carta fotografica, e poi la sviluppavo in maniera analoga a quella usata per la pellicola, impiegando però delle apposite bacinelle che contenevano il liquido di sviluppo.

Fortunatamente potevo svolgere quest'ultima parte del processo in camera oscura, vale a dire alla tenue luce della lampada rossa, perché la carta fotografica era incomparabilmente meno sensibile alla luce della pellicola. Per dare un'idea della differenza bisogna tenere a mente che una pellicola era impressionabile già con un millesimo di secondo di esposizione, mentre per esporre correttamente la carta fotografica erano necessari almeno una decina di secondi.

Sviluppati, sciacquati e infine asciugati, i provini erano finalmente pronti per essere esaminati con il prezioso ausilio di un contafili, che era la mia personale alternativa al lettore di microfilm.