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Una lunga ricerca in biblioteca

I cataloghi

Il mio ingresso vero e proprio nel mondo delle parole scritte, e poi stampate col piombo, comunque, era ancora piuttosto lontano. Per il momento stendevo schemi e sommari della ricerca con la mia preziosa Lettera 32 e soprattutto scorrevo decine e decine di schede catalografiche di periodici dal titolo, o meglio ancora dal sottotitolo, promettente, come per esempio «Natura e arte. Rassegna quindicinale illustrata italiana e straniera di scienze, lettere e arti», custoditi presso la Biblioteca Nazionale Braidense.

Frequentavo soprattutto la sala cataloghi, che fortunatamente è stata conservata magnifica com’era, benché allora non ospitasse anche le postazioni per la ricerca nel catalogo in linea, ma solo una quantità sterminata di lunghi e sottili cassetti zeppi di schede dattiloscritte, nel formato standard internazionale 2,5 x 7,5 centimetri, e soprattutto la storica collezione dei 127 "libroni", il vecchio catalogo manoscritto che giungeva fino al 1890.

I miei cartoncini formato 8,3 x 6,1 centimetri continuavano a ospitare notizie fotografiche, ma cominciarono anche a riempirsi di informazioni catalografiche sui giornali illustrati che avrei dovuto consultare per la stesura della tesi. Per la seconda volta, senza che ancora me ne accorgessi, le parole, scritte con cura e archiviate con metodo, mi avevano conquistato.

Avrei goduto volentieri di un supporto informatico, ma negli anni Settanta non c'erano ancora i computer alla portata del singolo, e tanto meno la possibilità di creare basi di dati come scripta, dunque la mia latente passione per gli archivi di parole poté esercitarsi soltanto sulla carta.

E la fotografia? Adesso arriva. Non bisogna dimenticare, infatti, che l'argomento della mia ricerca riguardava le immagini e dunque, dopo aver compilato 470 schede come quelle mostrate sopra, dovetti affrontare il problema di esaminare adeguatamente il cospicuo materiale illustrato a cui rimandavano. Le difficoltà erano due: la prima era legata all'aggettivo cospicuo, la seconda riguardava l'aggettivo illustrato.

Per la prima difficoltà c'era poco da scegliere. Come sa chiunque abbia svolto un lavoro di qualche importanza in archivio o in biblioteca, occorreva semplicemente applicarsi alla ricerca con pazienza e tenacia.

Ma la seconda difficoltà pareva più spinosa perché, mentre la pazienza era di aiuto quando si trattava di ricopiare o riassumere porzioni di testo, non tornava altrettanto utile con le immagini. Dovevo scartare il ricorso alle fotocopie in quanto avrei speso troppi soldi, ma soprattutto avrei perso troppo tempo per spiegare minuziosamente agli addetti alle medesime, i quali notoriamente non brillano per spirito collaborativo, ciò che avrebbero dovuto fotocopiare, saltellando qua e là fra le pagine dei giornali.

Il soccorso giunse dalla mia fida Minolta sr-t 101, la quale non si adombrò nel vedersi declassata dal suo primitivo ruolo di vigile occhio rivolto sulla realtà a semplice macchina destinata alla riproduzione dei documenti.

I depositi

L'idea che avevo escogitato era questa: avrei fotografato senza economia tutte le pagine utili per la ricerca, ricavandone delle riproduzioni o microfilm, come si diceva allora, e poi me le sarei studiate comodamente a casa.

All'inizio, tuttavia, non fu facile convincere i bibliotecari sulla bontà del mio metodo di lavoro. Infatti, se gli addetti alle fotocopie, in genere, non sono particolarmente motivati e coadiuvanti, i bibliotecari di solito sono diffidenti come gatti selvatici e mi guardavano a dir poco storto quando mi presentavo con la macchina fotografica, munita di due flash e altrettanti cavalletti, implorandoli di trovarmi un cantuccio appartato dove scattare senza disturbo le mie fotografie.

Alla fine, però, riuscii a conquistare la loro fiducia, e non solo quella: siccome petulavo quotidianamente al banco delle richieste montagne di volumi, che dovevano essere localizzati negli sterminati magazzini della biblioteca, prelevati, consegnati al lettore e infine ricollocati al loro posto, a un certo punto, un po' per buona reputazione e condotta, un po' per sfinimento degli addetti al movimento dei volumi, ottenni anche un permesso speciale per accedere direttamente ai depositi. Prelevavo per conto mio dal palchetto tutto quello che mi serviva, lo passavo in rassegna, prendevo appunti, scattavo fotografie e poi rimettevo tutto a posto senza disturbare nessuno.

Chi non ama le biblioteche non può comprendere l'onesto piacere che provavo nell'aggirarmi per gli stretti corridoi dei magazzini, fiancheggiati da muraglie di libri alte fino al soffitto, felice di avere a disposizione ciò che era interdetto al resto del pubblico dei lettori, del quale facevo tuttavia parte. Non posso nascondere di aver perso non poco tempo a bighellonare per quei corridoi male illuminati, e a lasciarmi rapire dalla curiosità per libri e giornali che niente avevano a che vedere con la ragione per cui mi era stato concesso il diritto di entrare in quei luoghi.

Il lavoro a casa

Il ricorso alle riproduzioni, però, risolveva soltanto metà del mio problema, perché una volta prodotti, i microfilm andava esaminati con un apposito, monumentale lettore, disponibile solo in biblioteca. Inoltre, siccome le riproduzioni erano ottenute in negativo, si prestavano bene alla lettura dei testi, ma non all'esame delle immagini.

Trovai la soluzione alla seconda parte del mio problema ricavando dei provini dalle fotografie fatte in biblioteca.

Naturalmente, nei provini le pagine fotografate avevano dimensioni minime, le stesse dei fotogrammi, ovvero 24 x 36 millimetri, ed erano perciò illeggibili. Ma è proprio qui che veniva in soccorso il contafili.

Un contafili è un microscopio da tasca che possiede capacità insospettabili. Di norma viene usato nell'industria tessile (da cui il nome) ma è diffuso anche in campo filatelico e in genere nell'ambito grafico. Io l'ho usato a lungo, come mostra il suo aspetto un po' malconcio, per esaminare comodamente a casa ‒ si fa per dire ‒ le immagini e addirittura i testi dei provini che stampavo.

L'immagine qui sopra, per esempio, mostra una colonna di testo larga circa 7 millimetri, tratta da un fotogramma del provino, che contiene una parte dell'indice del 1882 (anno diciannovesimo) del periodico «L'illustrazione popolare». Sotto il titolo Tipi, usi e costumi vi si può leggere, fra l'altro: «Aragonesi che ballano la jota, di G. Doré».

Ed eccola, qui sotto, la xilografia del celebre illustratore francese Gustave Doré (notare la firma in basso a sinistra), che non avevo potuto fare a meno di fotografare per la sua cospicua e inconfondibile bellezza, a pagina 65 del numero pubblicato il 29 gennaio 1882.

Non avevo bisogno d'altro per portare a termine la mia ricerca sulla stampa illustrata. A parte un paio d'anni di lavoro.