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Una storia della stampa illustrata italiana

Una ricerca unitaria

A preparare la tesi ci ho messo proprio un paio d'anni, ma siccome il mio personale corso di laurea in lettere è durato nove anni, si può dire che, dopotutto, le proporzioni sono state rispettate.

Dei 470 giornali schedati, esaminati minuziosamente e, se necessario, anche fotografati, poco più di duecento sono entrati nella stesura finale della tesi. Tuttavia, non avevo ancora ritirato il diploma di laurea che già ero preso in una ricerca più vasta e più matura, sul medesimo argomento, ma non più su scala locale, bensì nazionale, per ricavarne un volume a stampa.

Per ragioni di economia e di coerenza dell'opera, però, avevo deciso di non includervi la stampa umoristica, che sarebbe stata oggetto di una ricerca successiva.

Ora, a distanza di molti anni, mi riesce un po' difficile distinguere il lavoro della tesi da quello del libro, e francamente mi sembra anche inutile. La tesi è del 1979 mentre il libro è del 1983, ma definitiva si è trattato di una ricerca unitaria, nella quale ho compilato (o ricompilato) 1372 schede come quelle riprodotte qui sotto, questa volta nel formato standard internazionale di 12,5 x 7,5 centimetri...

ho realizzato oltre duemila strisce di pellicola come questa, per un totale di circa tredicimila fotogrammi...

e finalmente l'intera ricerca mi ha consentito di scrivere, prima la tesi sui giornali illustrati milanesi, e poi il libro su quelli italiani.

Parole che parlano di immagini

Il passaggio dalla luce, agente delle adorate fotografie che avevano offerto lo spunto per la ricerca, al piombo dei caratteri tipografici con i quali era stampato il libro, non rappresenta solo una scelta retorica per rendere più attraente questo racconto. La doppia metonimia, infatti, rispecchia un reale ispessimento al quale andarono incontro i miei interessi, che gradualmente viravano dall'entusiasmo un po' superficiale verso la comunicazione iconica a una più riflessiva attenzione per le parole scritte.

Pressoché seppellito dai miei tredicimila negativi cercavo un bandolo per organizzare quella matassa di materiale straordinariamente ricco ed eloquente, in apparenza, ma in realtà farraginoso e quindi inutile, senza un criterio interpretativo. Nessuna immagine, infatti, può parlare in modo convincente delle immagini, e tantomeno delle parole, mentre occorrono parole per parlare delle immagini e di qualsiasi altra cosa, comprese naturalmente le parole stesse.

Non mi nascondevo la forte carica ideologica delle immagini, il loro straordinario impatto emotivo, ma mi convincevo sempre di più che è impossibile qualsiasi discorso razionale senza le parole, ed io mi scoprivo ben poco interessato all'ideologia, che in quegli anni imperversava furiosamente dappertutto, e assai più incline, invece, a coltivare il rigore del ragionamento verbale.

Di lì a poco, infatti, avrei cercato di esprimere (neanche a dirlo, con parole puntigliosamente scritte) questo pensiero in maniera approfondita e sistematica.

Per il momento basti la riproduzione di questa deliziosa vignetta di Cem (Charles Elmer Martin (1910-1995), «The New Yorker») che mette in rilievo l'ambiguità del processo di comunicazione visiva.

La vignetta, però, si presta a qualche osservazione più sottile. Ci si può chiedere, infatti: come bisogna interpretare l'equivoco? La bambina che ha pensato il fiore è completamente negata per il mimo? I suoi compagni sono tutti sciocchi? O sono troppo dotati di fantasia? La forza ideologica dell'immagine, che qui serve a produrre il riso, è indubitabile, ma il suo contenuto è debole.

Ogni volta che guardo questa vignetta, penso sempre a un pubblico di osservatori, in una sorta di mise en abyme, tutt'intorno alla vignetta, che la osservano divertiti, ciascuno con il proprio fumetto iconico sulla testa, ovviamente uno diverso dall'altro.

Magazzini, Illustrazioni, Supplementi

Una sera tornavo a casa in metropolitana, una delle innumerevoli volte che ero stato in biblioteca a sfogliare e a fotografare i miei giornali, quando tutt'ad un tratto mi venne in mente il criterio per mettere ordine nel materiale. C'erano tre poli attorno ai quali si poteva farlo sensatamente gravitare, e questi poli erano prima di tutto tre parole: la denominazione si rivelava, di per se stessa, un fattore di ordine e di interpretazione, una caratteristica preclusa all'immagine. Non ho mai dimenticato quel viaggio in metropolitana.

Prima parola: i primi giornali illustrati coagularono nella forma didascalica e un po' sentenziosa del cosiddetto magazzino, del quale il «Cosmorama pittorico» (qui in un esemplare del 1838) fu una delle prime espressioni.

Seconda parola: intorno al 1875 sorse ad affiancarlo e poi a sostituirlo l'illustrazione, dedicata a un pubblico più maturo ed esigente (qui in un esemplare de «L'Illustrazione italiana», datato 1879).

Terza parola: infine, intorno al 1900, comparve il supplemento (qui rappresentato da «La Domenica del Corriere», del 1901) meno ingessato dell'illustrazione e assai più incline alla cronaca, anche spicciola.

Il lungo regno della regina Vittoria ha segnato involontariamente l'intera storia della stampa illustrata, e può servire quindi a metterne in rilievo le differenze di qualità esteriore: mediocre, nella xilografia pubblicata dal «Cosmorama» un anno dopo la sua salita al trono; buona, nella xilografia dell'«Illustrazione italiana», ricavata da un ritratto fotografico; eccellente, nell'incisione meccanica (qui priva di colore) della «Domenica del Corriere», anch'essa ricavata da una xilografia, a sua volta originata da una fotografia.

Un cambio di rotta

La monografia sulla stampa illustrata conteneva molte altre cose, e moltissime altre ne sono rimaste inevitabilmente fuori, ma il nocciolo del discorso è tutto racchiuso nel paragrafo precedente o addirittura, se vogliamo, nelle tre parole che mi erano venute in mente durante il famoso viaggio in metropolitana. Quando finii di scrivere il libro mi preoccupai anche di realizzare per la pubblicazione alcune riproduzioni fotografiche che arricchissero il volume come tavole fuori testo, ma ormai il mio interesse per la fotografia era diventato marginale. Scrivere, o più umilmente maneggiare le parole, mi attirava ormai più che trafficare con la macchina fotografica.