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Fotografia e storia

Ritorno a bomba

Nella terza parte del saggio tornavo alla fotografia, per concludere finalmente il discorso e proporre il mio punto di vista sul suo impiego come fonte storica. Con l'occhio rivolto alla recente ricerca sulla stampa illustrata lo giudicavo accettabile, ma sotto due condizioni molto restrittive, che prevedevano sempre un uso in serie di questo genere di immagini, e mai un ricorso ad esse senza un corredo verbale coevo.

Espressioni come pagina stampata e testo scritto compaiono più volte nel discorso, per affermare e ribadire la superiorità scientifica delle parole sul contenuto ideologico di qualsiasi genere di immagini. La mia definitiva conversione alle parole scritte poteva dirsi ormai cosa fatta.

Una conclusione generale

Cercavamo una soluzione alle aporie dell’immagine fotografica e ci ritroviamo una conclusione di ben più ampia portata sull’immagine tout court. Poco male, se è per questo. La nostra conclusione sembra demolire quello che resta dell’oggettività fotografica, e sembra dare fiato, di conseguenza, al partito di coloro che non si sono mai voluti rassegnare all’idea che la fotografia sia una pedissequa replica del reale. Ma solo in apparenza.

È vero, in effetti, che la fotografia non è obiettiva, in quanto messaggio assai più ideologico che critico, ma è ben vero anche che il difetto del messaggio ideologico è proprio la mancanza di determinazione. Chi produce una immagine, in altre parole, (e tra questi comprendiamo ovviamente anche i fotografi) può anche voler esprimere una cosa molto precisa, ma colui che la osserverà, vi leggerà solo ciò che una serie di circostanze incontrollabili lo indurranno a leggervi. Non è una grande consolazione. Dite a un vecchio generale che è un assassino, e lo vedrete andare in bestia, ma provate a mostrargli l’immagine di una trincea sotto il fuoco nemico, per significargli lo stesso concetto, e forse gli verranno i lucciconi agli occhi per i suoi bravi soldati. Se poi l’immagine è una fotografia non farà nessuna differenza, essa ci guadagnerà in realismo, ma parteciperà egualmente della natura ideologica di un messaggio dagli esiti inaspettati.

Fotografia e realismo

Questo tema del realismo è stato trattato ultimamente da Roland Barthes, che nel suo ultimo lavoro si è accostato al tema della fotografia. Egli lo ha fatto, però, (e già questo appare significativo) non tramite un saggio, ma più familiarmente attraverso una Nota che ha tutto il sapore (e il piacere) di una chiacchierata amichevole. Questo tono minore nel parlare di fotografia rivela in realtà la rinuncia ad elaborare una teoria fotografica, per accontentarsi di alcune osservazioni, per così dire, private sull’argomento. Barthes confessa anzi di non essere nemmeno sicuro che la fotografia esista, limitandosi a parlare più modestamente di fotografie.

La fotografia non sarebbe che il «Particolare assoluto», qualcosa, cioè, che per definizione si sottrae all’abbraccio del catalogo e agli sforzi della teoria. Tutto quello che si può dire di essa, o meglio, che essa dice di ciò che raffigura, è una cosa relativamente banale, forse, ma che si conficca senza scampo nella mente di chi la guarda: «È stato». La fotografia confida al suo osservatore semplicemente: «quello che vedi è successo veramente», quanto al resto, però, essa è muta. «Così è la Foto: non sa dire ciò che dà a vedere». [17]

Ecco finalmente un po’ di luce sul mistero dell’obiettività fotografica. In ciò sta quest’ultima, proprio e solo in quell'«È stato», che è stato e sarà per sempre, un dato incancellabile dell’esperienza, un grano duro di certezza nella sostanza molle in cui affondano i nostri sensi. Ma quanto al «che cosa» è stato, tutto ripiomba nel fluttuare delle possibilità offerte da ogni rappresentazione visiva.

Ora, l’idea di sapere con certezza geometrica che qualcosa è successo, ma di avere contemporaneamente solo una pallida idea di che cosa sia successo, si accompagna, per la verità, a una certa ansietà. Avevamo il sospetto che la fotografia occupasse un posto particolare nella mappa del visivo, ora ne siamo certi. La determinazione realistica («È stato») non salva la fotografia dall’indeterminazione ideologica, ove l’osservatore è stimolato, anzi, a rifugiarsi più profondamente di quanto, in genere, non faccia di fronte ad altre rappresentazioni visive, quasi a voler bilanciare, con l’idoleggiamento privato, la natura sfacciata della fotografia.

Barthes passa così in rassegna diverse immagini, note e meno note, ma tutte commentate da un punto di vista scrupolosamente soggettivo. In ciascuna di esse egli distingue lo studium, cioè quella parte del messaggio che si può considerare a disposizione di tutti, e che noi abbiamo definito critico, perché governato da un codice, per quanto approssimativo esso sia, e distingue accanto allo studium, il più delle volte, anche il punctum, cioè un particolare elemento che punge la sua sensibilità, senza che egli abbia la capacità di dare una spiegazione razionale del fenomeno.

Non crediamo di forzare il pensiero di Barthes sostenendo che egli individua nel punctum esattamente la parte ideologica del messaggio visivo, che deriva dal suo insufficiente grado di codifica, e che la coscienza del fatto compiuto, dell'«È stato», rende nella fotografia, piuttosto che nella pittura, particolarmente pungente.

L’album di Barthes si chiude, non senza malinconia, con una fotografia dove il punctum sopravanza quasi completamente lo studium: una immagine della madre, ripescata da un cassetto, nel riordinare delle carte dopo la morte di quest’ultima. A questa foto sono dedicate molte pagine, ma essa non viene riprodotta a differenza di tutte le altre. Non si tratta solo di pudore; Barthes spiega che quella fotografia, che per lui costituisce, più che un punctum, una vera e propria folgorante esperienza, al lettore, cioè all’altro, non potrebbe offrire, molto probabilmente, che uno scialbo esempio di studium, comunicandogli il semplice significato «donna». Intuiamo, invece, la presenza del messaggio totalmente ideologizzato, agli occhi di Barthes, dell’esperienza pressoché ineffabile, della corrispondenza di amorosi sensi di cui parla il poeta.

La fotografia al servizio della storia

Si tratta naturalmente di un caso estremo, anche se tutt’altro che raro. Ciascuno di noi conserva probabilmente qualche immagine carica di significato affettivo che offrirebbe assai malvolentieri allo sguardo di un osservatore estraneo, nel timore che questi la trovi insignificante. Ma in genere il rapporto tra il contenuto critico e quello ideologico delle fotografie è senz’altro più equilibrato.

Che uso può fare di esse, allora, lo storico? Ebbene, sulla scorta di quanto abbiamo accertato, non potrà che farne un uso assai ristretto, a meno che non voglia rinunciare alla sorveglianza critica.

C’è un lavoro, a questo proposito, dovuto a Lamberto Vitali che si rivela molto illuminante. [18] Vitali ha raccolto un corpus di fotografie italiane del periodo che va approssimativamente dal 1849 al 1870, l’epoca d’oro del Risorgimento. Le ha ordinate cronologicamente e le ha presentate al lettore come documento di un periodo della storia nazionale. Ebbene: quale valore storico, ovvero scientifico, dobbiamo attribuire a questo lavoro? Crediamo che l’autore non si adombrerà troppo del nostro giudizio se rispondiamo semplicemente: nessuno. Un giudizio che procede da due ragioni.

La prima sta nel fatto che Vitali ha montato le sue foto storiche assieme a dei testi altrettanto «storici», quali diari, memorie, libri, compilati, il più delle volte, dagli stessi protagonisti dell’epopea risorgimentale. Ora, consumati come siamo nella cesellatura critica delle fonti scritte, soprattutto di quelle dovute ai protagonisti delle vicende in questione, perché mai dovremmo fidarci delle fotografie? Solo perché ci intimidisce il loro realismo? Ma abbiamo visto che il realismo fotografico si limita a quell’unica e inarticolata esclamazione: «È stato»; per il resto la fotografia è muta o, se si preferisce, può dire tutto, il che poi è lo stesso. Testo e immagini si specchiano nel libro di Vitali senza che sia possibile trarre da essi qualche certezza.

L’altra ragione la spigoliamo dalle stesse righe dell’autore, che alla fine della sua brevissima introduzione ‒ tutta tecnica, peraltro ‒ annota: «Forse queste immagini e questi testi potranno essere ragione di un risvegliarsi di interessi e soprattutto di affetti da parte dei dimentichi nipoti». Vitali mette l’accento, dunque, più sul contenuto emotivo che su quello informativo del suo libro, che si rivela così una specie di commemorazione di un certo passato, priva di retorica e di civetteria.

Detto questo possiamo anche aggiungere tranquillamente che il libro è molto bello, specie per quanto attiene al consistente numero dei ritratti. Si resta colpiti dal portamento altero della contessa di Castiglione, [19] da quel viso affilato, quella bocca sottile, quegli occhi di ghiaccio. Scrive Barthes: «Un giorno, molto tempo fa, mi capitò sottomano una fotografia dell’ultimo fratello di Napoleone, Girolamo (1852). In quel momento, con uno stupore che da allora non ho mai potuto ridurre, mi dissi: «Sto vedendo gli occhi che hanno visto l’imperatore». [20] Ebbene, il ritratto della Castiglione non può che ispirare dei pensieri analoghi: «...gli occhi che hanno visto (e incantato) l’imperatore». Eccoli lì, quegli occhi, e non si può nascondere una certa emozione.

Lo stesso discorso potrebbe essere ripetuto per ciascuno dei ritratti contenuti nel libro: per lo sguardo tagliente di Bixio, [21] quello dispettoso di Francesco II, [22] quello brusco di Vittorio Emanuele II, [23] se un sospetto non si insinuasse a raffreddare un poco il nostro trasporto; quello per cui, forse, proiettiamo su quei ritratti ciò che sappiamo dei soggetti, per poi lasciar rimbalzare dalle loro effigi una emozione che ci trova premeditatamente complici.

Il libro di Vitali è davvero affascinante, ma, come detto, non aggiunge nulla alle conoscenze storiche. Semmai, le carica di un affetto che può anche tornarci grato, ma nulla più. Non ci aspettiamo altre cose dalla fotografia. Poche informazioni critiche (la contessa di Castiglione era una «bella donna», ma questo già si sapeva) e molte notizie che si sottraggono alla sorveglianza critica e accrescono la nostra informazione su un piano inaccettabile al linguaggio verbale.

Insomma, il libro di Vitali è apologetico. Niente di male, s’intende; basta saperlo, e basta dirlo. Ma allora la conclusione sarebbe proprio questa: non c’è spazio nel lavoro dello storico per un uso critico dell’immagine fotografica? Sono in molti a non crederlo (compreso chi scrive), ma per motivi diversi.

Un forte dubbio

L’atto di fiducia più coraggioso, realizzato di recente, nei confronti dell’impiego di fotografie in sede storica è stato il lavoro a quattro mani di Carlo Bertelli e Giulio Bollati comparso negli Annali della Storia d’Italia Einaudi.

Nella seconda sezione delle fotografie riprodotte in quest’opera ritroviamo alcune immagini già viste nel libro di Vitali. Al n. 83 c’è Nino Bixio; ci sorge un sospetto, facciamo un rapido confronto che conferma il sospetto: nel libro di Vitali la foto è intera, mentre sugli Annali la stessa fotografia è tagliata a tre quarti, inquadrata, come si dice in gergo. Si dirà, un’inezia. Senz’altro. Ma è su queste «inezie» che i grafici dei giornali lavorano, con risultati che non sempre si possono definire equivalenti. [24] Voltiamo pagina e troviamo una nutrita serie, insieme macabra e patetica, di briganti catturati e ammazzati (nn. 84-88). Ci tornano subito alla memoria gli hebdomadaires citati da Sadoul. Che i curatori del volume se ne siano resi conto o meno, questo è del tutto irrilevante; quello che è sicuro, invece, è il fatto che l’accostamento Bixio-briganti può suggerire una serie di considerazioni del tipo: «Ecco Bixio, il campione di una certa idea dell’ordine pubblico, che ha ridotto la questione meridionale a una vergognosa e strisciante guerra civile», oppure (perché no?): «Bravo Bixio! Lui sì che ci aveva il pugno di ferro».

Abbiamo detto può, non deve; che si avverta o meno, cioè, l’accostamento, e che lo si interpreti in un modo piuttosto che in un altro, esso rimane pur sempre un fatto possibile, non necessario, come lo è invece una dichiarazione verbale, per falsa o aberrante che sia. Rimane un fatto ideologico.

Ma i curatori di quest’opera si muovono su un piano diverso da quello su cui si muoveva Vitali. Essi vorrebbero aggiungere conoscenze critiche al corpo delle conoscenze già disponibili sulla storia d’Italia. Bollati ha scritto un saggio per molti aspetti seducente sul rapporto tra fotografia e società italiana, sottolineando l’irriducibile contrasto che ha opposto la cultura e la tradizione del nostro paese alle caratteristiche specifiche della fotografia: «Alla [cultura] carducciana (per definirla provvisoriamente) tiene ora dietro la dannunziana, cui seguirà la fascista e, forse, il conglomerato "cristiano" del secondo dopoguerra; e c’è da chiedersi se non sia da cercare in questa direzione un tipo ideologico modulare, funzionale e necessario al particolare sviluppo italiano; tipo che potremmo definire formalmente "a grembo materno" per indicarne il carattere isolante, protettivo, totalizzante e, all’occorrenza, autoritario». [25]

È una tesi suggestiva, anche al di fuori dell’ambito in cui viene impiegata, e meritevole di essere approfondita. Poco prima l’autore aveva osservato: «Difficile vita per la fotografia, in una tale situazione, quando l’idealismo, l’estetismo, il moralismo prendono il sopravvento». [26] La storia italiana sembra percorsa dal filo rosso di una puntigliosa tradizione idealistica e retorica, cui si opporrebbe naturalmente l’anima pratica e stringente della fotografia. Noi dubitiamo proprio di quell’avverbio.

Le ragioni del dubbio

A proposito, per esempio, dei famosi reperti antropologici di Lombroso, cui la parte iconografica dell’opera dedica diverse pagine, Bollati osserva: «Il massimo pregiudizio ideologico [...] si allea alla massima pretesa di obiettività, e cerca, con pervicacia una dimostrazione more geometrico». [27]

Bollati non sembra rendersi conto che presentando le fotografie di Lombroso sulla pubblicazione di Einaudi egli compie una operazione di segno opposto, ma identica nella sostanza. Se Lombroso con quelle fotografie intendeva dire: «Vedete, proprio questi sono dei delinquenti», ora il curatore suggerisce: «Dite voi se questi volti rivelano quello che Lombroso pretendeva che rivelassero». Le foto dovrebbero rivelare quello che non rivelano. In entrambi i casi non si sfugge alla tendenziosità, che non è addebitabile, però, alle intenzioni di chi ha realizzato le fotografie o a chi le ha raccolte cent’anni dopo in un libro, ma alla natura stessa del messaggio, visto che il nostro estimatore di Bixio, giunto alle fotografie di Lombroso, potrebbe pur sempre rammaricarsi del fatto che la polizia non faccia tesoro oggi di certi insegnamenti.

Più avanti il discorso si fa più esplicito, relativamente alle fotografie del periodo postfascista: «Infida alleata del fascismo, la fotografia della guerra e della guerra civile rivela tutto quello che le si ordina di nascondere. Basta ormai la faccia di un bambino, o una colonna di fumo sullo sfondo di una periferia per sfatare i colli fatati, e i medioevi cristiani, cavallereschi e comunali». [28] Davvero basta una colonna di fumo per svelare l’occultamento del reale di cui soprattutto la fotografia fascista si sarebbe resa responsabile? O non è piuttosto proprio l’immagine del fumo quella più calzante per simboleggiare la natura ideologica della fotografia, attraverso cui ciascuno può vedere quello che circostanze aleatorie lo inducono a vedervi?

Un servizio subordinato

La fotografia, in realtà, svela più di quanto queste pagine, forse, hanno indotto qualcuno a credere. Tuttavia non si tratta di uno svelamento spontaneo, naturale, legato al realismo dell’immagine meccanica o all’intenzione più o meno ispirata del fotografo, ma di uno svelamento indotto, provocato. L’idea che ormai ci ha conquistato, insomma, è che la fotografia in se stessa non significhi nulla (di certo). A poco serve quindi allineare luoghi e ritratti del passato che per il loro carattere realistico possono tutt’al più alimentare la nostalgia per il passato, ma non ne fanno progredire la conoscenza. Quelle scene di gente che posa, sorride, piange, cammina, lavora, combatte e muore, ci assicurano soltanto che proprio quella gente ha posato, sorriso, pianto, camminato, lavorato, combattuto, ed è morta, ma niente di più, anche se questo è già molto per liberare l’immaginazione. Ma quanto al senso da dare a quei documenti, tanto sicuri quanto indecifrabili, bisognerà cercare altrove la soluzione.

Un uso critico di fonti fotografiche, a nostro avviso, è subordinato al rispetto di due condizioni:

1. che il materiale si presenti come un corpus organico, e non come singolo esemplare o serie eterogenea;

2. che esso sia accompagnato da un testo scritto.

Entrambe queste condizioni, è bene dirlo, non eliminano il carattere ideologico delle immagini fotografiche. È impensabile, d’a1tra parte, che degli strumenti di comunicazione ideologici possano venire convertiti in strumenti critici. Ma se non si può convertirli, si può sempre guadagnarli alla nuova causa. Ci sembra che la soluzione stia tutta qui.

Bisogna capovolgere la domanda che di solito viene rivolta alla fotografia; non si tratta più di chiederle che ci procuri delle conoscenze sul passato ‒ una domanda che onestamente non possiamo rivolgerle ‒ ma si tratta di illuminare l’azione ideologica che essa esercitava sugli uomini del suo tempo. Considerata da questo punto di vista, la natura ideologica della fotografia non dovrebbe più impensierire lo storico, che rinuncia in partenza a interrogarla sul suo significato intrinseco. Disfattosi del pesante fardello di dubbi relativi a ciò che dice, e a ciò che può dire in astratto la fotografia, lo studioso può concentrarsi nell’accertamento di ciò che ha detto in concreto una certa fotografia in una particolare circostanza storica.

Ma una fotografia è poco. Una fotografia, nonostante la nitidezza e il realismo del suo aspetto, non è che un frammento insignificante, combinabile all’infinito con analoghi frammenti. Il suo significato non sta in sé, ma nelle relazioni che essa intrattiene con le altre fotografie. Si pensi agli hebdomadaires di Sadoul, e alle loro foto mescolate. Si dubita dei vari significati assunti dalle immagini, a seconda delle loro posizioni relative, ma non si dubita del fatto che si dubita, cioè del fatto che non esiste l’oggettività fotografica. Ecco allora nascere da eventi squisitamente ideologici una certezza critica che si emancipa dall’ambito che l’ha generata. Questo ci pare il solo uso legittimo della fotografia in storia. Non si può leggere il passato attraverso le fotografie, se non in modo sentimentale, però è possibile studiare che tipo di funzione ideologica esse hanno esercitato in certe circostanze, e l’accertamento di questa funzione si sottrae al dominio ideologico.

Fotografia, fotografie

Ma, dicevamo, una fotografia non basta. Quanto più lunga e omogenea sarà infatti la serie delle fotografie studiate, tanto più certo sarà l’esito della ricerca. Se contano, infatti, più le relazioni che la lettera delle fotografie, per la determinazione del loro significato, allora bisognerà orientare la ricerca verso un materiale cospicuo e organico, che metta lo studioso al riparo dal rischio di sovrapporre la propria lettura ideologica della fotografia a quella dei destinatari storici di quest’ultima, rischio non indifferente, se si pensa alla natura scivolosa del materiale.

Da una sola immagine è possibile trarre quasi tutto, mentre da una serie, che non sia raccogliticcia ma omogenea, si può trarre invece qualcosa di molto meno equivoco. Proponiamo allora l’indagine estensiva, al posto di quella intensiva, perché ai riflessi abbaglianti delle pietre preziose, confessiamo di preferire una riposante penombra. Ma tutto questo non è ancora sufficiente. Cosa significherebbero le foto dei nostri hebdomadaires, private delle loro didascalie? Nulla. Non basta quindi il solo contesto visivo per determinare il significato delle fotografie, ne occorre anche uno di natura verbale.

A questo punto tanto vale confessare che i nostri richiami all’esempio degli hebdomadaires non erano del tutto disinteressati. Ci premeva parlarne perché ci sembra che soprattutto essi rispondano alle condizioni poste sopra. È ben vero che eravamo partiti da una serie di contraddizioni che li vedevano come protagonisti, mentre ora sosteniamo che essi sono un luogo privilegiato di ricerca. Tuttavia non dovrebbe essere difficile convincersi che se i fascicoli citati da Sadoul possono procurare un certo imbarazzo, qualche annata del giornale, spulciata con il dovuto scrupolo, guardando le foto, leggendo le didascalie, e passando in rassegna i testi, potrebbero tramutare l’imbarazzo in curiosità, e invogliare a una ispezione più approfondita. La carta stampata, insomma, ci sembra il luogo privilegiato per lo studio della fotografia in sede storica.

Che interesse può mai avere, per lo storico, una fotografia privata del pittore Francesco Paolo Michetti, scattata nel 1893, e raffigurante «Zi’ Adelina col piccolo Sandro e un altro bambino di fronte al casino di Michetti sulla spiaggia di Francavilla»? [29] Crediamo nessuno.

Ogni giorno milioni di orgogliosi genitori immortalano la loro prole in piccoli rettangoli di carta che custodiscono come oracoli nel portafogli, per mostrarli poi, alla prima occasione, a qualche malcapitato compagno di viaggio. È un fenomeno imponente e meritevole di attenzione quello delle foto ricordo, ma quella foto, che importanza può avere? Nessuna. È il «Particolare assoluto», la «Contingenza suprema» di cui parla Barthes.

Invece eccola in una raccolta che dovrebbe celebrare il matrimonio tra la fotografia e la storia, che per definizione è proprio ciò che resta del passato al dissolversi del contingente. La fotografia può resistere a questa dissoluzione ‒ può esistere, cioè ‒ solo a patto che sia legata in una catena e ancorata a un testo scritto. La pagina stampata. Su di essa, infatti, l’immagine assume una dimensione pubblica, opposta a quella privata dell’album di famiglia.

Non vogliamo negare l’importanza storica di quest’ultimo, a condizione però che lo si intenda come fenomeno sociale, e non come esemplare, perché in tal caso non sapremmo davvero che farcene, si trattasse pure di quello della famiglia reale.

Al contrario la fotografia stampata, pur senza rinunciare alla connotazione ideologica (come potrebbe?) si sottrae alla straripante influenza del privato. Essa, infatti, esercita la propria azione sul corpo sociale, esercita cioè un’azione media, e perciò si presta meglio all’analisi critica di quanto non faccia una immagine maturata, prodotta e circolata in un ambito relativamente ristretto. Il fatto di venire consumata pubblicamente, rende la fotografia stampata più controllabile, e quindi analizzabile, sempre che lo si faccia alle condizioni esposte, mentre quella privata resta soggetta senza rimedio agli umori e alla sensibilità individuale, una giungla assai difficile da penetrare per lo studioso.

Una storia parallela

C’è una storia parallela a quella, per così dire, ufficiale della fotografia, che nessuno, o quasi, [30] ha voluto raccontare, e che riguarda le applicazioni della fotografia alla stampa. Quest’anima duplice ‒ pubblica e privata ‒ della fotografia ha influenzato anche gli studiosi che hanno trascurato la prima per rivolgersi soprattutto alla seconda. Della fotografia privata, infatti, esistono diverse trattazioni, [31] mentre di quella stampata, ovvero di quella pubblica, si trovano notizie solo nei manuali tecnici, eppure è proprio in uno di questi manuali che troviamo questa inaspettata osservazione: «Se non fosse sfruttata nel campo della riproduzione grafica l’impiego della fotografia sarebbe limitato soltanto ai ritratti di famiglia e alle foto delle cerimonie nuziali». [32]

Ma gli storici della fotografia non hanno creduto opportuno tenere in debita considerazione questa semplice verità, hanno disdegnato la carta stampata per concentrare tutte le loro finezze interpretative sui capolavori, specie quelli numerati e quotati sul mercato dell’arte, con la conseguenza che la storia della fotografia che ci viene consegnata dai loro lavori è popolata soprattutto di geni precorritori e di artefici massimi, merito equivoco e paradossale, se si pensa al recupero in atto oggi della fotografia nell’ambito di una concezione storiografica che non si appaga più di grandi figure.

Invece è proprio la carta stampata, la fotografia minuta e diffusa, spesso prosaica, che piano piano ha conquistato giornali, riviste, locandine, manifesti e pieghevoli che può salvaguardare lo storico dalle insidie del privato, dell’unico, dell’intimo, dell’ideologico, che può insomma strappare qualche brano di certezza all’universo del possibile.

Note

[17] Roland Barthes, La camera chiara, Nota sulla fotografia, Torino, 1980, p. 101. Il corsivo è di Barthes.

[18] Lamberto Vitali, Il Risorgimento nella fotografia, Torino, 1979. Ultimamente è comparsa anche una Storia fotografica del Partito comunista italiano, a cura di E. P. Amendola, introduzione di P. Spriano, Roma, 1981, 2 voll., che ci sembra animata dallo stesso spirito di partecipe rievocazione che circola nel libro di Vitali. Mentre questo articolo era in stampa sono continuate ad apparire altre «storie fotografiche», ad esempio: Storia fotografica del fascismo, a cura di R. De Felice, L. Goglia, Roma-Bari, 1981; Storia fotografica del lavoro in Italia, 1900-1980, a cura di A. Accornero, U. Lucas, G. Sapelli, con un saggio di A. C. Quintavalle, Bari, 1981.

[19] Ivi, n. 34.

[20] Roland Barthes, op. cit., p. 5.

[21] Lamberto Vitali, op. cit., n. 94.

[22] Ivi, n. 137.

[23] Ivi, n. 159.

[24] Il fatto, probabile, che le due foto provengano da due fonti diverse non ha grande importanza. Vorrebbe solo dire che il taglio è stato effettuato all’origine.

[25] Giulio Bollati, Note su fotografia e storia, in Storia d’Italia, Annali, 2, Torino, 1979, p. 46.

[26] Ivi, p. 43.

[27] Ivi, p. 39.

[28] Ivi, p. 54.

[29] Ivi, n. 255.

[30] Bisogna ricordare il caso un po’ eccentrico ma attraente, per la carica irrisoria nei confronti della fotografia togata, di Ando Gilardi, Storia sociale della fotografia, Milano, 1976.

[31] I testi «sacri», nell’edizione italiana, possono essere considerati: Peter Pollack, Storia della fotografia dalle origini a oggi, Milano, 1959; Helmut e Alison Gernsheim, Storia della fotografia, Milano, 1966.

[32] M. J. Langford, Trattato completo di fotografia, Roma, 1973.