Alessandro Tassoni, L'Oceano, 1622

l’Odissea, la quale, s’io non m’inganno

Fortunate, vegga Vostra Signoria s’egli potesse servire a

fin qui dormito; or s’incomincia l’ora ¶ che

eterna e vera. ¶ E s’alcuno di voi con

di gemme a faticar s’invoglia, ¶ io spero di

del mar corre e s’abbassa, ¶ e le tempeste

ancor del tutto ei s’era, ¶ che riversò la

al gran comando ¶ tosto s’armò di lampi e

Ecco il ciel che s’allegra e si riveste

e gialli. ¶ Ma non s’offerse cosa a i

la vista ai naviganti, ¶ s’imboscàr tutte a la

d’amore; ¶ e quando s’accorgean d’esser mirate

d’esser mirate, ¶ or s’ascondeano, or si mostravan

cor di tigre ardente. ¶ S’altri l’età più

lunge le potea vedere; ¶ s’in abito virile, in

Sdegnato, Giove a proveder s’accinse, ¶ nandò l’Onore

il vago aprile ¶ e s’infiamma d’arsura estiva

frutti amati, ¶ ma non s’estingua poi la vostra

e la conduca ove s’ha dato il vanto

guerrier dal porto ispano ¶ s’era partito il gran

secura parte, ¶ poi che s’accorge o de’ vicini

fin che nulla vale, ¶ s’allontana da lor spiegando

Settentrion la rabbia avversa ¶ s’oppone, e ritornar non

fioriti e piagge amene ¶ s’eran cangiati in nudi

sol ne l’ocean s’immerse ¶ e fu la

mai sì fiera illusion s’offerse ¶ a l’agitat

d’orror cinta, ¶ che s’agguagliasse a quella; onde

tremava la terra, or s’udia il tuono ¶ de

ciel la notte ascose, ¶ s’accolsero e fuggìr tutte