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Estate: la preparazione

1. Epigrafe apocrifa

Lo ammetto. Galileo Galilei non ha mai scritto questa frase però, secondo me, deve averla pensata almeno una volta e quindi adesso cercherò di giustificare la mite menzogna di questa citazione apocrifa.

Io cercavo un titolo per questo libro, subito dopo che avevo incominciato a scriverlo. Qualcuno dirà che trovare il titolo per un libro che è ancora tutto da scrivere non è una necessità urgente, ma io non sono d’accordo. Lavoro malvolentieri e provo una sensazione di disagio quando devo realizzare qualche cosa che non ha ancora un nome oppure un titolo. Probabilmente ciò dipende dal fatto che ho una spiccata inclinazione per il nominalismo, come si vedrà molto bene più avanti: per me, infatti, il titolo di un’opera è come il seme attorno al quale deve crescere il lavoro, non il suggello finale dell’impresa.

Dunque io cercavo il titolo appropriato per un libro in cui volevo descrivere la mia esperienza di insegnante impegnato ad iniziare gli studenti di un liceo alla prosa tecnico-scientifica e non ci misi tanto a trovare un’espressione che mi parve soddisfacente: in temperate parole. Mi sembrò un ottimo auspicio per continuare con una finalità più precisa il lavoro intrapreso. Questa espressione, infatti, mi pareva che esprimesse bene i principi di chiarezza e di sobrietà che dovrebbero ispirare lo scrivere di cose scientifiche, senonché essa suonava innegabilmente anche come il frammento di una citazione. Mi domandai allora chi avrebbe potuto pronunciare il discorso da cui avevo involontariamente tratto quel frammento, e la risposta fu immediata: Galileo Galilei.

Il mio lavoro di docente di laboratorio consiste nel proporre agli studenti un certo numero di sensate esperienze scientifiche le quali vengono altresì illuminate da dimostrazioni necessarie di natura matematica. Queste esperienze, però, vanno anche socializzate riducendole in un testo scritto che sia chiaro e semplice, ma per nulla banale. Esse vanno ridotte, insomma, in temperate parole dalle quali, però, possa trasparire anche qualche misurata emozione intellettuale.

Questo è il lavoro che vorrei raccontare nel libro, ma questa – prima di tutto – è stata la lezione scientifica e umana di Galileo nel cui profondo solco mi sono sforzato di procedere e che ho riassunto per comodità nel mio piccolo falso. Spero che sarò perdonato.

Chi legge, però, non pensi che mi sia davvero inventato tutto di sana pianta. In una lettera del 1615 Galileo scrisse effettivamente:

Mi par che nelle dispute di problemi naturali non si dovrebbe cominciare dalle autorità di luoghi delle Scritture, ma dalle sensate esperienze e dalle dimostrazioni necessarie.

La lettera però proseguiva spiegando che “procedendo di pari dal Verbo divino la Scrittura Sacra e la natura” non poteva esserci una vera contraddizione fra le prime e la seconda, ma semmai si imponeva la necessità di trovare un accordo che Dio lasciava alla dottrina e alla sagacia dell’uomo.

Nel suo Dialogo, d’altra parte, sempre Galileo fa dire a Sagredo:

Con gran gusto, ed anco profitto, ho sentito il vostro discorso; e per assicurarmi s’io ben l’abbia capito, dirò la somma delle conclusioni sotto brevi parole.

Salviati aveva appena svolto una dimostrazione geometrica sulla dimensione delle stelle fisse in relazione al “moto annuo della Terra” intorno al Sole e il suo interlocutore si accingeva a riassumerla.

Le temperate parole, invece, sono proprio una mia invenzione, ma anche in questo caso vorrei citare un osservatore dell’epoca – Paolo Aicardo – il quale, in una lettera del 1593 (citata in Massimo Bucciantini, Galileo e Keplero, Torino, Einaudi, 2003, p. 23) così parla di Galileo che è appena giunto a Padova e che ha preso a svolgere le proprie lezioni di matematica:

In vero oltre il valore nella sua professione ha tante belle parti, che tutti l’amano, et honorano, et non ne ha anco di quelle che sogliono havere i matematici, che non è né fantastigo, né gramatico.

Il giovane Galileo, non ancora trentenne, mostrava già dalla cattedra padovana di possedere quella felice attitudine ad esprimere le cose in modo né fantastigo, né gramatico che avrebbe poi manifestato in maniera esemplare nelle opere della maturità.