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Estate: la preparazione

6. Quattro armi didattiche

Un cavaliere che si rispetti non può fare a meno di possedere una lancia e una spada per combattere con efficacia, ma deve avere sempre con sé anche uno scudo e un’armatura per non farsi sopraffare dall’avversario. Adattai quel bagaglio alla lotta che dovevo affrontare e riconobbi che mi occorrevano:

1. un obiettivo didattico;

2. un programma di lavoro;

per combattere efficacemente l’ignoranza, ma non potevo certo dimenticare:

3. un metodo di svolgimento;

4. un criterio di valutazione;

per difendermi dalle avversità che avrei incontrato di sicuro nell’impresa.

Il programma di lavoro non mi poneva particolari problemi. Trovavo logica l’idea di continuare a proporre alcuni dei numerosi esperimenti di laboratorio che avevo messo a punto nel corso degli anni passati. Se devo dire tutta la verità devo aggiungere che finii poi per modificare sensibilmente anche questo aspetto del mio lavoro, ma in quel momento il programma di lavoro non mi appariva la cosa più importante da definire.

L’obiettivo didattico, invece, mi impensieriva moltissimo. Quale scopo peculiare potevo assegnare al mio programma di lavoro? Naturalmente lo scopo generale era più che mai evidente: fianco a fianco – finalmente su un piede di parità – insegnante teorico ed insegnante tecnico-pratico avrebbero edificato le conoscenze scientifiche degli studenti nel campo della fisica; il teorico lo avrebbe fatto in classe, il pratico lo avrebbe fatto in laboratorio. Ma io, in particolare, che cosa avrei dovuto effettivamente raccogliere e valutare della fatica dello studente? Al docente di teoria spettavano da sempre i concetti; a me che cosa toccava?

Consideravo pacifico il fatto che non avrei dovuto insistere su quello stesso campo perché sarebbe stato imbarazzante rispetto al collega di teoria e insopportabile per gli studenti. Mi convinsi allora che c’era un grande spazio libero per lavorare all’edificazione delle conoscenze scientifiche degli studenti: l’abilità di comunicare adeguatamente i concetti acquisiti. I concetti, si sa, risiedono nella mente – talvolta in modo limpido, molto più spesso in maniera confusa o incompleta – ma è sulla carta che devono finire, prima o poi, per poter entrare in altre menti e alimentare il processo virtuoso della diffusione della conoscenza.

Questo modello mente-carta-mente è una vera e propria conquista dell’umanità – pensai – e prima si apprende ad impiegarlo, meglio è.

Se al docente di teoria, pertanto, riconobbi che spettavano i concetti, io decisi che mi sarei adoperato ad insegnare agli studenti come coltivare la comunicazione dei medesimi, distillandoli da quell’attività apparentemente confusa e caotica che è l’esperimento di laboratorio. Lo strumento fondamentale per svolgere questo lavoro, pertanto, sarebbe stato la relazione scritta sull’attività di laboratorio.

A prima vista non sembra proprio quel che si dice una novità strabiliante. Ho già detto che un certo numero di relazioni di laboratorio venivano già richieste agli studenti, da parte di molti dei miei colleghi di teoria, dopo che io avevo svolto un esperimento. Ma si trattava spesso di stanche e scontate rappresentazioni, un teatrino di gruppo messo in scena giusto per sottolineare il fatto che dell’esperimento svolto qualcosa bisognava pure che venisse ricordato. In fin dei conti non deve stupire che anche il più scrupoloso insegnante di questo mondo, dopo aver svolto delle serie verifiche scritte in classe e dopo aver ascoltato con cura ogni studente in una interrogazione orale, trovasse naturale il fatto di dare un peso piuttosto marginale al lavoro svolto a casa, magari in gruppo. Al suo posto avrei fatto la stessa cosa anch’io. Davvero.

Ma io stavo ragionando sopra un’idea ben diversa: avrei puntato tutto sulla relazione di laboratorio, perché avevo deciso essenzialmente di insegnare agli studenti come si deve scrivere un testo tecnico-scientifico nell’ambito della scuola secondaria superiore. Io non avrei eseguito perciò delle verifiche in classe – come avrei potuto? ci vogliono dalle tre alle sei ore di atroce fatica per scrivere una relazione decente – e non avrei neppure interrogato gli studenti; io avrei semplicemente chiesto loro che, ad una settimana dal giorno dell’esperimento, puntualmente, mi consegnassero un elaborato scritto relativo a quest’ultimo, dimodoché io potessi ricavare da quell’elaborato delle informazioni precise sulla loro capacità di comunicare i concetti acquisiti.

Direi una bugia sostenendo che l’idea che ho appena espresso mi sia apparsa nella mente con la chiarezza con cui ho cercato di esprimerla. In realtà io stavo semplicemente cercando un obiettivo didattico specifico che fosse concomitante con quello del docente di teoria, e ritenni che cercare di valorizzare lo spento rito della relazione di laboratorio poteva soddisfare decentemente questa necessità. Nel corso degli anni, però, credo di aver avuto diverse conferme della fecondità di questa idea.

Il metodo di svolgimento venne praticamente da sé, una volta fissato l’obiettivo didattico. C’era una semplice domanda, in realtà, alla quale dovevo rispondere onestamente prima di dare il via al mio nuovo corso:

‒ Sei capace?

perché un conto è ritenere che una cosa vada fatta – bisogna insegnare agli studenti come si deve stendere un testo tecnico-scientifico – e un conto è ritenere di saperla fare. Ebbene, a quel punto la scelta fu tra modestia e sincerità. Da qualche parte conservavo il rotolo di una laurea in lettere, e questo dava una giustificazione accademica ai miei propositi didattici, ma soprattutto ero persuaso che scrivere fosse una fatica che sapevo condurre a termine con chiarezza e precisione. Avevo ormai imparato da un pezzo a usare la bilancia di Mohr-Westphal, e quindi non sarebbe stato un problema, per me, descrivere minutamente per iscritto questa abilità. Potevo allora insegnare entrambe le cose a uno studente quattordicenne, sicché egli potesse poi scrivere bene la propria relazione di laboratorio, prendere (almeno) otto e vivere felice.

Assunsi dunque un metodo di svolgimento che potrei definire per imitazione – un mio vecchio chiodo fisso, di cui dirò molte più cose in seguito – persuaso che scrivere sia essenzialmente una attività artigianale e che quindi essa vada appresa per imitazione, soprattutto quando il talento scarseggia. In altre parole avrei prima mostrato agli studenti la mia relazione di laboratorio e dopo avrei preteso la loro.

Il criterio di valutazione restava lo strumento tecnicamente più difficile da mettere a punto. In realtà, come ho già detto, lo scoglio principale era stato la scelta dell’obiettivo didattico; ma in fin dei conti si era trattato semplicemente di trovare l’idea giusta, e a me sembrava di averla trovata. Ora, dopo lo slancio creativo, veniva la parte più prosaica del lavoro, quella che, insieme con l’elenco degli esperimenti di laboratorio, doveva permettermi di dare sostanza concreta all’obiettivo didattico. Avrei lavorato durante l’estate per fondere le quattro armi didattiche in un progetto organico e per mettermi dunque in condizione di affrontare baldanzosamente a settembre il nuovo anno scolastico nella mia nuova condizione di cavaliere didattico. Mi sentivo assai motivato all’idea di correre prontamente in soccorso degli studenti del mio istituto, i quali avevano un grande bisogno, secondo me, che finalmente giungesse un prode a spiegare loro come si deve scrivere una relazione di laboratorio.