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Estate: la preparazione

4. La teoria deve accordarsi con la pratica o viceversa?

Fra il 1977 e il 1999 ho lavorato con una ventina di colleghi di teoria, in parte fisici, in parte ingegneri. Alcuni li ho amati, altri li ho detestati; in genere li ho stimati, qualche volta li ho disprezzati. Ma devo sottolineare il fatto che il rapporto fra un docente di teoria e un docente di laboratorio è ben diverso da quello che si stabilisce fra i docenti del consiglio di classe. Il professore di matematica illuminista e libertino, per esempio, può contendere furiosamente con il collega di lettere aulico e bigotto tutte le volte che se ne presenta l’occasione, ma poi ciascuno di essi chiude la porta dell’aula dietro le spalle e affronta gli studenti a modo proprio.

Fra teorici e pratici la questione è molto più delicata, perché il Legislatore aveva voluto che essi collaborassero a stretto contatto davanti al pubblico degli studenti e che fosse il docente pratico a dover accomodare il proprio stile di lavoro a quello del docente di teoria, mai viceversa.

Come ho già detto, il primo teorico con il quale dovetti coabitare in laboratorio fu un fisico dalla tagliente parlata emiliana, di buona dottrina e di modi assai spicci: mi ordinò subito di indossare il camice bianco – cosa che non ho più fatto in vita mia – e mi iniziò senza preamboli ai segreti del mestiere. Lavorai con lui solo per tre mesi, ma credo di dovergli molto. Da bravo fisico, in effetti, egli dava una grande importanza all’attività di laboratorio, e così mi ritrovai rapidamente a dover mettere a punto una grande quantità di esperimenti, alcuni dei quali erano assai delicati.

Per esempio si misurava con grande cura la densità di un liquido, impiegando la bilancia di Mohr-Westphal. Questa bilancia è uno strumento così preciso che si deve addirittura tener conto della spinta di Archimede nell’aria per correggere il risultato della misura. Mi estasiavo a quell’idea.

Il mio mentore, insomma, si prodigava volentieri nell’erudirmi e dal momento che, oltre ad amare molto la fisica, amava almeno altrettanto l’altro sesso non mi risparmiava né opinioni né consigli neppure in questo campo, sebbene io evitassi accuratamente di assumere le prime e di seguire i secondi. Insomma, il nostro sodalizio fu breve ma proficuo e pieno di reciproca stima, almeno così mi piace pensare.

Quanto a chiedere il mio parere sul profitto degli studenti, però, credo che l’eventualità neppure gli sfiorasse per la mente, sebbene in linea di principio la cosa fosse prevista dalla normativa vigente. Del resto, la richiesta mi avrebbe imbarazzato non poco: ero il primo a pensare che il mio compito fondamentale fosse studiare la fisica, preparare gli esperimenti e seguire le classi nello svolgimento di questi ultimi.

Col passare degli anni, però, dopo che ero venuto a contatto con una grande varietà di caratteri umani e di attitudini professionali, cominciai a pensare di aver conquistato la capacità di esprimere anch’io qualche parere personale. La risposta, però, in genere era sempre la stessa:

– Grazie ci penserò – dice Ruggiero –
Adesso puoi sellare il mio destriero.

Dovetti ammettere, una volta di più, che c’è una grande differenza fra

1. andare d’accordo con persone che sono diverse da te;

2. andare d’accordo con persone che sono diverse da te e che ti possono comandare.

Un altro collega fisico, che sfiatava sonoramente le vocali alla tipica maniera calabrese ed era molto appassionato di donne come il collega emiliano, considerava invece le due ore settimanali di laboratorio un prezioso diversivo per rilassarsi ed eventualmente concedersi anche un po’ al sonno.

‒ Oggi possiamo fargli vedere il film sul moto uniforme? – s’informava quando la fatica quotidiana del professore doveva sembrargli insopportabile.

‒ L’hanno già visto – rispondevo io, che fra i miei compiti istituzionali avevo anche quello di operatore delle proiezioni e che spesso, fino a cinque minuti prima che gli studenti arrivassero in laboratorio, ignoravo ciò che sarebbe successo.

‒ Davvero? – trasecolava lui – E quando? – Poi aggiungeva senza aspettare una risposta – E allora vediamo quello sui sistemi di riferimento.

‒ Anche quello, l’hanno già visto.

‒ Anche quello!… Beh, insomma, facciamoglielo rivedere, tanto male non fa.

Che lo avessero già visto una o più volte, in effetti, non aveva una grande importanza, perché egli si guardava bene dal chiedere poi agli studenti di rendere il minimo conto di quella proiezione. D’altra parte i mezzi per valutare la loro preparazione scolastica erano altri: c’erano i compiti in classe e le interrogazioni orali. In linea di principio ci sarebbe stata anche la Relazione di laboratorio, da richiedere sottoforma di elaborato scritto, utile per farsi un’idea del profitto nell’attività pratica, ma il problema era che dopo che gliela avevi chiesta – quella benedetta relazione – poi almeno un’occhiata dovevi dargliela. Meglio dunque evitare.

Non tutti i miei colleghi di teoria, però, avevano l’animo pigro e ribaldo di quel docente cinefilo il quale – sia detto a onor del vero – era assai colto e di amabilissima compagnia, fuori dall’aula scolastica. Sebbene non fosse più un giovanotto gli piaceva arrivare a scuola con la sua spider rossa decappottabile, ostentando dei malandrini riccioli brizzolati sulle tempie. Alle volte, però, la cronica rinite di cui soffriva gli procurava una grandissima pena e allora egli diventava la persona più piagnucolosa che io abbia mai conosciuto, ma di solito aveva un carattere estroverso, spiritoso e turbolento.

Non tutti i miei colleghi di teoria, dicevo, erano di quella pasta grossa. Risalendo a quegli anni, per esempio, si affaccia alla mia memoria anche una delicata figura femminile con la quale, nonostante lo scarto di età, il rapporto di lavoro divenne presto un sodalizio di stima e di rispetto reciproco. Dopo aver spiegato le modalità dell’esperimento, infatti, e aver distribuito il materiale occorrente, confesso di aver spesso indugiato, mentre gli studenti lavoravano, a conversare con questa collega dei più svariati argomenti sui quali era la norma che arrivassimo a giudizi concordi. Di tanto in tanto gli studenti venivano a porre le proprie domande alle quali noi rispondevamo a turno, in base alla natura di queste ultime e al nostro ufficio didattico. Questa collega se ne andò prematuramente e a me resta ancora oggi la nostalgia di quelle parole amichevoli dette fra una domanda e l’altra degli studenti.

Fra questi estremi si è svolto dunque il mio umile lavoro di insegnante tecnico-pratico – itp come venivamo spesso liquidati dall’espressività un po’ ruvida che hanno talvolta gli acronimi – fra il 1977 e il 1999. Le cose, in genere, andavano pressappoco così: il teorico mi cercava per dirmi che la classe era stata resa edotta a sufficienza nella teoria per ricevere l’illuminazione della prova sperimentale, cosicché:

‒ Mercoledì facciamo Boyle? – era la tipica domanda che mi sentivo rivolgere.

‒ D’accordo, mercoledì facciamo Boyle – era la tipica risposta che fornivo.

L'accordo prevedeva un tour completo della legge di Boyle: richiamo teorico, uso degli strumenti, diffida sugli abusi, esecuzione dell’esperimento, tutto compreso.

Il mercoledì successivo, pertanto, il collega di teoria si presentava in laboratorio capitanando una classe vociante che annusava la possibilità di ottenere qualche sconto sulla disciplina. D’altra parte non c’è niente da fare: in laboratorio gli studenti hanno il diritto di muoversi attorno alle apparecchiature, devono scambiare informazioni con i compagni del proprio gruppo di lavoro, possono assillare in continuazione i professori con mille quesiti pratici; è evidente che per tutte queste ragioni anche il professore più severo deve tollerare un po’ di confusione in laboratorio. Io però ero del partito della tolleranza minima, per cui andavo diritto alla lavagna, facevo il mio bravo richiamo, spiegavo l’uso delle apparecchiature, descrivevo gli strumenti di misura, mettevo in guardia dalle insidie di alcuni procedimenti scorretti, minacciavo in anticipo gli studenti maldestri, distribuivo il materiale didattico e celebravo il rito dell’Esperimento. Alla fine, sbaraccavo l’attrezzatura, salutavo e toglievo il disturbo. Accertare l’utilità di quella celebrazione scientifica per il profitto scolastico degli studenti non era affar mio, ci avrebbe pensato il teorico.

Succedeva allora che certe volte quest'ultimo ci pensava, ma certe altre volte, invece, non ci pensava affatto – di solito quando mettevo in scena un esperimento dimostrativo – e appena fuori dal laboratorio dimenticava più in fretta dei suoi studenti tutto quello che vi era appena accaduto. Un vero spreco, non c’è che ammetterlo.

Insomma, nonostante la sostanziale concordia con cui si svolgeva il mio lavoro di insegnante tecnico-pratico con la maggior parte dei colleghi di teoria – di norma più anziani di me – rimaneva il fatto indiscutibile che allorché arrivava il momento di esprimere il giudizio sul profitto degli studenti io dovevo farmi doverosamente da parte come accadeva, dieci e oltre anni prima, quando impartivo ai ragazzi delle medie le mie cosiddette lezioni di ferromodellismo, di fotografia, di falegnameria.

Del resto, gli obiettivi didattici dei miei colleghi di teoria non contemplavano la capacità dello studente di stendere un testo tecnico-scientifico di qualità. Come ho già detto, i teorici più scrupolosi richiedevano spesso agli studenti una relazione di laboratorio, e poi la sottoponevano anche ad un esame; però si trattava di un lavoro fatto a casa, spesso in gruppo, e dunque era considerato quasi privo di valore in confronto a un compito in classe o a una interrogazione orale, un giudizio che era equamente condiviso sia dai discenti, sia dai docenti, esclusi quelli tecnico-pratici per i quali il problema semplicemente non si poneva, o quasi.

‒ Perché non le correggi tu le relazioni di laboratorio? – mi chiese un collega di teoria, una volta che si parlava del modo migliore per valutare il profitto degli studenti – dopotutto, non sei tu il docente di laboratorio?

Il suo discorso non faceva una piega.

‒ Ammettiamo che io le corregga – gli risposi a bruciapelo – tu ti impegni a trascrivere senza discutere i miei voti sul tuo registro?

‒ Mercoledì facciamo Boyle?

‒ D’accordo, mercoledì facciamo Boyle.