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Estate: la preparazione

2. Anche un buco nell’acqua può servire

Un’idea primitiva per questo libro mi era venuta nell’estate del 1996. L’estate, si sa, è una grande risorsa di tempo, soprattutto per gli insegnanti i quali, pur non godendo interamente dei tre mesi di vacanza concessi ai loro studenti, ne condividono comunque una lauta parte. Era avvenuto che nell’anno appena concluso il mio istituto aveva avviato una sperimentazione ministeriale di liceo scientifico-tecnologico – ovvero un liceo scientifico sostanzialmente privo dell’insegnamento del latino ma ricco di attività di laboratorio – e visto che io ero proprio un insegnante di laboratorio mi sentii molto coinvolto in quell’impresa e indotto a realizzare, durante il riposo estivo, qualcosa di nuovo e di utile per promuoverla.

Stesi perciò la bozza di un testo che mi preoccupai subito di intitolare Come scrivere bene la Relazione di laboratorio, prendere (almeno) otto e vivere felici. Mi ero convinto, infatti, che l’attività pratica di laboratorio era molto importante per la formazione di una mentalità scientifica dello studente, però pensavo che fosse altrettanto importante che egli acquisisse la capacità di riflettere criticamente su questa attività, il che difficilmente accade senza mettere le cose nero su bianco. In sostanza pensavo che prima veniva il fare ma poi doveva seguire lo scrivere, perché il primo senza il secondo è ben poca cosa. In realtà non covavo un’idea del tutto originale poiché da sempre, a scuola, si affibbiavano relazioni scritte agli studenti dopo averli impegnati in qualsivoglia attività didattica. Però mi sembrava che, in genere, non si ponesse la necessaria attenzione alle difficoltà tecniche connesse alla stesura di un testo tecnico-scientifico, il che meritava dunque un approfondimento specifico.

Il progetto prevedeva la stesura di un certo numero di relazioni riguardanti alcuni esperimenti scientifici – alcuni dei quali di disarmante semplicità – che io assumevo come pretesto per insegnare passo passo a degli studenti ideali il metodo per scrivere un’efficace relazione.

‒ Qual è l’esperimento scientifico più idiota che riesco ad immaginare? – mi domandai per cominciare, e subito mi risposi – Fare buchi nell’acqua e vedere che cosa succede.

Detto fatto. Scrissi una breve relazione dell’esperimento, che eseguii per scrupolo, e le diedi la veste sbarazzina ma assennata di un pregevole manufatto studentesco.

La tesi fondamentale del discorso era che non esistono esperimenti intelligenti o stupidi, esistono piuttosto esperimenti condotti con metodo oppure disordinatamente, e soprattutto esistono esperimenti descritti con chiarezza e precisione oppure senza discernimento. Per questa ragione anche bucare l’acqua con un bastoncino e osservare con distacco gli effetti prodotti poteva costituire una dignitosa attività scientifica, a condizione che venisse svolta e descritta con criterio.

Scelsi come musa dell’opera la studentessa più brava dell’anno scolastico appena concluso – Emanuela – immaginando che fosse la pronipote, vaga di riscatto, di uno fra i peggiori discenti della storia patria, e buttai giù allegramente un discreto numero di pagine sentenziose sul modo migliore per raccontare gli esperimenti scientifici, a cominciare dai buchi nell’acqua.

L’idea mi sembrava davvero niente male – non parlo dei buchi nell’acqua, naturalmente – perché notavo che quasi ogni libro di testo di fisica o di chimica in circolazione mostrava solo un frugale interesse per l’attività di laboratorio e comunque la preoccupazione dell’autore era sempre rivolta a fornire istruzioni e suggerimenti operativi utili per condurre a buon fine l’esperimento in laboratorio, mai invece a discutere in dettaglio come stenderne la successiva relazione scritta. Pareva che questo compito comportasse solo minime difficoltà e rivestisse comunque un’importanza marginale per la preparazione dello studente. Tutt’al più si notava la presenza di un certo numero di tabelle, malinconicamente vuote, da riempire con i dati raccolti nel corso dell’esperimento suggerito; e questo era tutto. Insomma: c’era da colmare una lacuna didattica, secondo me, e io pensavo che potevo farlo adeguatamente.

D’altro canto alcune considerazioni contribuivano a raffreddare il mio entusiasmo. Anzitutto riflettevo sul fatto che gli studenti svolgevano abitualmente l’attività di laboratorio soprattutto per dovere – come ogni altra attività scolastica, del resto – e successivamente non si assoggettavano tanto volentieri al gravoso lavoro di stesura della pertinente relazione. Dovetti ammettere a me stesso che essi non avrebbero spontaneamente acquistato e letto un’opera che richiedeva la fatica di comprendere come affrontare un’altra fatica.

L’idea di farne un libro di testo, d’altra parte, mi convinceva pochissimo, e non era detto che essa avrebbe poi convinto un editore dal momento che gli editori, di solito, hanno la pessima abitudine di giudicare i progetti con criteri venali e questo progetto non si annunciava dei più remunerativi.

Ma la ragione più importante delle mie perplessità era un’altra: io ero un insegnante di laboratorio, e quindi – almeno in linea di principio – ero la persona più adatta per mostrare agli studenti come si conduce un esperimento scientifico e come se ne deve poi adeguatamente scrivere, ma per insindacabile disposizione del Legislatore io non avevo titolo per valutare il loro lavoro. Spiegherò più avanti i dettagli di tale disposizione; ora voglio solo sottolineare il fatto che io non avevo la facoltà di verificare gli effetti sugli studenti del mio magistero esaminando il riflesso che essi erano in grado di produrre in virtù dell’esercizio di quello stesso magistero. In parole povere: io spiegavo gli esperimenti ma poi non correggevo le relazioni degli studenti, perché era qualcun altro deputato a farlo. Come avrei potuto insegnare efficacemente a scrivere un testo tecnico-scientifico in quella situazione tanto ambigua?

– È meglio lasciare perdere – mi dissi alla fine molto a malincuore – è meglio lasciare perdere.