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Autunno: la prova

8. Il primo esperimento: misure a senso

Per tanti anni, il primo esperimento di laboratorio di fisica che ho fatto fare agli studenti è stato misurare una lunghezza con un calibro ventesimale.

Mettevo in mano allo studente un piccolo parallelepipedo di ferro lavorato alla lima e gli chiedevo di misurare ripetutamente lo spessore del manufatto. Tale manufatto proveniva dai reparti di lavorazione dello stesso istituto ed era stato prodotto dagli studenti medesimi nell’ambito dell’ormai dimenticata disciplina di aggiustaggio. Fino a una ventina di anni fa, infatti, durante il biennio preparatorio dell’istituto tecnico industriale, veniva impartito l’insegnamento di questa disciplina che consisteva essenzialmente nell’addestrare gli studenti a lavorare il ferro impiegando utensili manuali, primo fra tutti la lima. Per il fatto di essere stato prodotto dagli studenti, tuttavia, esso andava considerato il più delle volte come un pedifatto – piuttosto che un manufatto – per il deprecabile sprezzo verso la geometria con cui esso era stato realizzato dalle mani inesperte degli studenti.

Questo difetto, tuttavia, si prestava molto bene agli occhi del docente di fisica per introdurre ‒ a suo avviso ‒ gli stessi studenti ai misteri della teoria della misura. Difficilmente, infatti, lo spessore del parallelepipedo presentava due valori uguali, cosicché lo studente, misurandolo con il calibro, avrebbe potuto raccogliere un certo numero di misurazioni dal quale ricavare successivamente il canonico valor medio, la giudiziosa incertezza assoluta della misura e la ancor più preziosa incertezza relativa.

Ho eseguito per la prima volta questo esperimento come studente nel lontano autunno del 1966 e l’ho poi ripetuto un gran numero di volte come insegnante a partire dal 1977.

Anno dopo anno, tuttavia, cresceva in me l’insofferenza per questo esperimento bugiardo che, secondo me, non aveva nulla a che vedere con l’oggettiva difficoltà, intrinseca alla natura, di ottenere delle misure esatte. E mi domando se gli innumerevoli colleghi che lo hanno fatto eseguire innumerevoli volte ai propri studenti siano stati ingenui, conformisti o addirittura ipocriti.

Oggi mi sembra più che evidente il fatto che misurare lo spessore di un parallelepipedo bislacco in punti diversi è un’operazione utile per farsi un’idea generale di questo spessore, però è fuorviante per attirare l’attenzione degli studenti sulla connaturata incertezza di ogni misura sperimentale. D’altra parte, il calibro è uno strumento di misura troppo grossolano per mettere nel dovuto rilievo gli errori sperimentali qualora si voglia ripetere la misurazione dello spessore nello stesso punto.

Gli studenti più avveduti fiutavano l’imbroglio e avanzavano qualche debole perplessità, ma poi, come tutti gli altri, si assoggettavano al conformismo con la penosa rassegnazione con cui imparano presto a difendersi dai comportamenti incomprensibili dei docenti.

Quello che mi faceva più rabbia, però, era il fatto che confondendo le acque in questo modo, dopo era molto più difficile redimerli dal primo degli innumerevoli peccati originali scientifici che ottenebrano la mente dell’uomo della strada: credere che esistono le misure esatte.

Per uno studente di prima superiore, infatti, una misura esatta è semplicemente una questione di soldi: compratevi il meravigliometro più costoso e avrete le misure giuste. Alla nasa probabilmente ce l’hanno, e infatti quelli della nasa sono capaci di mandare le navicelle nello spazio, a migliaia e migliaia di chilometri dalla terra, con precisione millimetrica.

‒ La scuola ha pochi soldi – questa è la dichiarazione che rende spontaneamente qualsiasi studente di prima superiore – perciò noi dobbiamo accontentarci di strumenti approssimativi come il righello o al massimo il calibro ventesimale.

Segue il corollario:

È solo per questa ragione che bisogna vedersela con il valore medio, l’incertezza assoluta, l’incertezza relativa e tutti quegli inutili calcoli. Se avessimo gli strumenti giusti, basterebbe fare una misura e basta.

Come dare loro torto?

Alla fine cambiai strategia. Niente più calibri ventesimali, niente più parallelepipedi strambi, e soprattutto niente più misurazioni a vanvera: cercai di svolgere un vero esperimento di metrologia, elementare nell’esecuzione – anzi rudimentale, se vogliamo – ma rigoroso nella concezione.

Come è noto, se si ripete un gran numero di volte la misurazione di una certa grandezza si ottengono dei risultati che tendono a distribuirsi approssimativamente secondo una funzione di probabilità, detta funzione di Gauss, la cui rappresentazione grafica ha la tipica forma di una campana. Il vertice di questa curva a campana rappresenta il valore misurato con più frequenza e dunque questo valore va assunto ragionevolmente come il valore più attendibile della misura.

A dire il vero realizzavo un esperimento utile per costruire una curva gaussiana già da cinque anni, con la sincera approvazione dei colleghi di teoria, ma adesso lo sentivo come una cosa del tutto mia, dal momento che per la prima volta avrei anche valutato personalmente la risposta degli studenti.

L’idea fondamentale era questa: chiamavo, uno per volta, tutti gli studenti della classe nella piccola aula di preparazione attigua al laboratorio dove, sopra un tavolo, era appoggiato un listello di legno e uno spezzone di matita.

Li mettevo davanti al tavolo e domandavo loro di indicare a occhio – senza che si potessero avvicinare al listello – quante volte lo spezzone di matita era contenuto nel listello; in altre parole chiedevo di eseguire una grossolana misura della lunghezza del listello impiegando come unità di misura lo spezzone di matita e come strumento di misura il senso della vista.

Lo studente indicava il valore e io lo registravo anonimamente senza fare commenti, tranne una benevola diffida dal comunicarlo ai compagni, almeno finché l’esperimento non fosse terminato. Molti studenti, tuttavia, non resistevano alla curiosità e domandavano candidamente:

‒ Posso sapere, almeno, se ho indovinato?

Era evidente che, per loro, trovare il valore esatto fosse solo una questione di fortuna, o tutt’al più di abilità. Nel giro di una settimana sottoponevo tutte le classi prime dell’istituto a questo esperimento, dimodoché alla fine potevo contare su un discreto numero di misurazioni (dal mio punto di vista) o di scommesse (dal loro).

Questo semplice rito metrologico è stato ripetuto all’inizio di ogni anno scolastico – dal 1994 fino al 2005 – come una specie di battesimo dell’attività di laboratorio. Alla fine, perciò, ho potuto accumulare la bellezza di 2054 misurazioni della lunghezza del listello eseguite sempre con la stessa tecnica e impiegando come unità di misura sempre lo stesso, identico spezzone di matita. A scuola lo conservo quasi con la stessa amorevole cura con cui conservano il metro campione a Sèvres.

2054 ragazze e ragazzi sui quattordici anni si sono dunque avvicendati davanti a quel listello e a quello spezzone, nel tentativo di valutare la lunghezza del primo in relazione a quella del secondo. Non posso dire che siano passati tutti sotto i miei occhi, perché non erano tutti quanti studenti delle mie classi e quindi era un altro insegnante, al mio posto, che domandava loro di eseguire la misura. Tuttavia credo di averne visto un numero sufficiente per avventurarmi a fare qualche considerazione generale.

Non so cosa darei – tanto per cominciare, in barba a qualsiasi buona norma di rispetto del privato – per disporre delle riprese video di quelle brevi operazioni di misura e rimirarle a distanza di tanti anni, ora che i protagonisti di quelle più remote sono ormai ben lontani dalla scuola. Quelle riprese, infatti, sarebbero dei perfetti provini scolastici, del tutto simili a quelli cinematografici. Di questi ultimi, infatti, essi possiederebbero la stessa crudele immediatezza che, scrutata dall’occhio esperto del regista, lascia intravvedere all’istante un coltivabile talento oppure una fatale inettitudine.

Qui, naturalmente, finisce il parallelo poiché, come tutti sanno, un provino cinematografico disastroso si conclude con la frase rituale:

‒ Grazie, si accomodi. Le faremo sapere.

Un provino scolastico altrettanto disastroso, invece, si trasforma semplicemente in un pensiero infelice che va ad aggiungersi a tutti gli altri che affollano la testa del docente, mentre un provino brillante alimenta una grata aspettativa di successo scolastico.

In mancanza dei provini, perciò, per ripercorrere quegli episodi devo affidami alla memoria la quale, di fronte ad una massa tanto cospicua di episodi particolari, ha lasciato cadere i dettagli e ha istituito una classificazione generale dei diversi modi in cui si è svolto, anno dopo anno, quel semplice atto di misurazione. Forse è meglio così.

C’è chi entra smarrito per il mistero di quella richiesta e confuso per il timore di sbagliare, balbetta il numero e fugge subito dopo; c’è chi entra placidamente, per nulla turbato dalla prova ed esegue, rapido e sicuro, quel piccolo compito; c’è chi entra spavaldo e dinoccolato, si guarda intorno distrattamente e poi tira subito a indovinare il numero.

‒ Venti – dice subito.

‒ Venti o una ventina? – chiedo io dubbioso su quel numero buttato lì – perché, vedi, non sono la stessa cosa. Devi contare quante volte lo spezzone è contenuto nel listello, non devi tirare a indovinare. Hai capito?

‒ Sì, sì, venti.

C’è chi ci mette dieci secondi a distillare una misura ragionevole e c’è chi dopo due minuti non ha ancora concepito un’idea di quanto possa essere lungo quel benedetto listello; c’è chi capisce al volo le istruzioni e c’è chi dopo due volte che gli sono state ripetute ha ancora negli occhi quello sguardo perso che ogni bravo insegnante conosce perfettamente e che dice:

‒ Ti prego: aiutami di più.

Insomma: c’è chi sarà promosso facilmente in seconda, e poi in terza, e poi arriverà di corsa in quarta e approderà finalmente in quinta per consolare la commissione d’esame con la propria bravura, e c’è chi invece fra un anno sarà ancora qui, davanti a quel listello, un po’ più alto ma sempre spavaldo, dinoccolato e distratto.

‒ Venti.

‒ Venti o una ventina?

‒ Venti.

C’è chi si ingolferà fino al collo nei debiti scolastici e c’è chi invece sorvolerà sul pelo dell’acqua quei cinque bracci di mare che lo aspettano, sempre col pericolo di inabissarsi, sempre con la fortuna di non bagnarsi.

La scuola è cominciata solo da qualche giorno e io sono già qui a fare, sovrappensiero, questo esercizio di previsione del successo scolastico degli studenti basandomi semplicemente sul modo in cui essi misurano la lunghezza di un listello di legno. Riconosco di essere un po’ spietato ma – dico la verità – non provo sensi di colpa; semmai, mi sento un po’ triste e impotente perché so già in anticipo che con molti ragazzi ci sarà poco da fare. La scuola potrà sicuramente costruire qualcosa sulla loro educazione familiare, ma spesso un danno pressoché irreversibile è già stato fatto dall’incuria in cui sono stati cresciuti e dall’indifferenza per i libri con cui hanno coabitato per troppo tempo.

‒ La famiglia è una somma – filosofeggio mentre una scettica adolescente scruta distrattamente il listello – invece la scuola è un prodotto. Se moltiplichi qualcosa per zero, ottieni sempre zero. C’è poco da fare.

Queste però sono soltanto ombre nere che mi attraversano la mente quando assisto a qualche manifestazione di esagerata superficialità o di ottusità. Comunque sia, bisogna lavorare con la massima serietà con tutti, e dunque:

‒ Allora, hai contato quante volte lo spezzone è contenuto nel listello? – domando all’ennesimo studente con tono amichevole ma volutamente un po’ distratto, giusto per non generare apprensione.

‒ Secondo me, tredici volte.

‒ Grazie, ora puoi andare – la congedo, e aggiungo “13” alla lista delle misurazioni eseguite.

Con una gran quantità di misurazioni, che diventa ogni anno più imponente, posso presentarmi davanti agli studenti finalmente con la coscienza scientifica pulita e avviare un discorso serio su che cosa significa davvero eseguire la misura di una grandezza fisica. Per essere più convincente ho scritto un programma che mostra l’istogramma della distribuzione dei dati in maniera più efficace di quella del foglio di calcolo. Le misurazioni, infatti, compaiono sullo schermo una dopo l’altra, come se venissero eseguite proprio in quel medesimo istante, anche se in realtà esse sono tutte registrate, anno per anno, in diversi documenti e vengono ripescate al momento. Ho aggiunto anche una funzione turbo che permette di mostrare con una animazione la crescita dell’istogramma mentre le misurazioni vengono lette.

In dieci secondi, perciò, si può osservare come le misurazioni realizzate in dieci anni vanno a popolare progressivamente l’istogramma. L’effetto è notevole. Ma il bello è che non è affatto arbitrario, perché le misurazioni vengono lette e disposte sull’istogramma proprio nell’ordine in cui sono state raccolte, solo che tutto il processo avviene tremendamente in fretta.

Mentre armeggio davanti al computer per avviare il programma avverto alle mie spalle un corale sentimento di attesa. Finalmente si saprà chi ha indovinato la lunghezza del listello. Nessuno spera in ricompense, ma la soddisfazione morale non si potrà negare.

‒ Supponiamo, tanto per cominciare, che abbiamo eseguito una sola misurazione del listello – questo è l’inizio del mio discorso – rappresentiamo allora il risultato in un istogramma disegnato dal computer… – premo un bottone ed ecco che subito spunta un rettangolino giallo alla base del grafico in corrispondenza del valore 16. – Come potete vedere, il primo valore misurato dall’anonimo studente è 16; ora io vi chiedo: questo valore è il valore esatto della misura?

Da questa domanda, in genere, prende il via una discussione ricca e talvolta impetuosa, nella quale non mancano quasi mai episodi di sorpresa e di diffidenza.

All’inizio non è difficile convincere gli studenti che quella singola misurazione non significa un granché. Il vero problema è fugare l’equivoco che mina la nostra apparente concordia: per loro, infatti, quella misurazione è solo una scommessa; per me, invece, è pur sempre un rispettabilissimo dato sperimentale.

Il programma permette di rappresentare i dati con molta libertà: si possono mostrare singole misurazioni, grappoli più o meno abbondanti di dati, intere vendemmie annuali e naturalmente si possono esibire insieme tutte le annate della cantina. Io procedo a piccoli passi, con assaggi moderati: cinque, dieci, venti misurazioni per volta, fino a cumulare i dati di mezza annata. E ogni degustazione merita il proprio commento.

‒ Vedete – osservo – la distribuzione delle misurazioni non sembra affatto casuale, anche se appare un po’ caotica.

Gradualmente cerco di insinuare l’idea che non c’era proprio niente da indovinare, ma che, semmai, tutti insieme gli studenti hanno contribuito a ottenere una misura del listello che diventa sempre più certa al crescere del numero di misurazioni eseguite. La rappresentazione completa dell’intera vendemmia annuale sembra proprio confermare questa idea.

Poi lascio alla classe la libertà di assaggiare alcune delle infinite distribuzioni, e qui si scatena un allegro pandemonio.

‒ Le prime cento.

‒ Le ultime trecento.

Tutte quelle dell’anno scorso.

‒ Dalla 666 alla 999 – propone qualcuno in vena di curiosità numerologiche.

Io eseguo docilmente, caricando i dati richiesti che in un istante si dispongono obbedienti sullo schermo per essere ammirati e discussi.

‒ Tutte! tutte! – mi implorano alla fine gli studenti, dopo che ho cercato in vari modi di prendere tempo per arrivare a questo inevitabile approdo con una ricca messe di esempi da sfruttare in seguito.

‒ Va bene, va bene: tutte – acconsento – e sparo sullo schermo, in un colpo solo, 2054 misurazioni del listello.

Poi sfodero l’asso del turbo e muovendo un cursore diminuisco il numero delle misurazioni fino a ridurlo a un gruzzolo insignificante. L’istogramma si ammoscia davanti ai loro occhi come succede a certe torte quando si apre troppo presto il forno.

‒ Vedete – osservo – siamo andati indietro nel tempo. Adesso ripercorriamo un po’ più lentamente la storia di tutte queste misurazioni – e ricomincio a pompare dati sullo schermo.

La torta riprende rapidamente corpo nel forno informatico, dove gli anni passano come battiti delle ciglia, e alla fine riacquista lo stesso volume che aveva assunto qualche istante prima.

‒ Non vi pare che l’istogramma mantiene sempre la stessa forma al crescere delle misure? – domando – Questo vi sembra un caso?

Le risposte degli studenti non si fanno attendere. Tutti vogliono dire la propria opinione. Io ascolto, concedo e contengo, osservo ed obietto, commento e commendo e sotto sotto gongolo, perché forse, lentamente, sto insinuando nella mente degli studenti l’ardua verità scientifica: esistono solo certezze statistiche. Allora tento l’affondo finale per avere la prova che il messaggio è arrivato a destinazione: vado alla lavagna e disegno una serie di schizzi e poi butto lì con noncuranza la domanda successiva:

‒ Ma secondo voi – lunga, studiatissima pausa – fra tutti questi schizzi – altra pausa ben ponderata – qual è quello che assomiglia di più alla forma degli istogrammi che abbiamo esaminato fino ad ora sul computer?

‒ Il numero cinque! – rispondono in coro gli studenti con prontezza.

È un istante di vertiginosa felicità professionale. Sembra che abbiamo riconosciuto una distribuzione normale senza averne mai sentito parlare prima, come se la funzione di Gauss fosse impressa nel loro dna. La circostanza è solenne.

‒ Bene. E adesso vi chiedo… – ecco la domanda cruciale, mi accorgo di abbassare il tono della voce, scandisco bene le sillabe per evitare ogni possibile fraintendimento – …secondo voi, potrebbe succedere che, facendo altri esperimenti, tipo l’anno prossimo, l’istogramma assuma un’altra forma, per esempio la due?

Mi aspetto di incassare la meritata ricompensa di un convinto e corale

Nooooo…

E invece gli studenti tacciono, esitano. Poi qualcuno azzarda:

‒ Beh, sì, forse sì… anche la numero tre…

E allora la valanga delle inverosimili possibilità mi travolge.

‒ La uno!

‒ La sette!

‒ Anche la nove, magari.

Ma come?

Ho mostrato cinque, dieci, quindici esempi di istogrammi della distribuzione delle occorrenze: tutti immancabilmente a forma di (in ordine alfabetico) collina, dosso, duna, grattacielo, montagna, piramide, poggio, totem o qualsiasi altro accidente di cosa che faccia venire in mente una – e una sola – protuberanza;

ho dimostrato col turbo che l’accumulo delle misurazioni agisce con la massima evidenza per accrescere sempre di più l’imponenza di quell’unica, solitaria protuberanza;

nessuno studente ha potuto vedere sullo schermo (sempre in ordine alfabetico) altopiani, cunette, fossi, gradini, pianure, scale, scivoli, valli se non come insignificanti e passeggeri accidenti;

insomma anche un idiota dovrebbe capire, a questo punto, che l’anno prossimo non ci sarà né la due, né la uno, né la sette, né la nove, ma solo la cinque, la cinque e ancora una volta la cinque per il resto dell’eternità.

Giusto, no?

No. Io credo di aver imparato molte cose ripetendo – anno dopo anno – questo semplice esperimento di metrologia e adesso proverò a dire in poche parole il senso di quanto ho imparato.

Ho notato che di fronte a questo esperimento gli studenti tendono a dividersi sostanzialmente in due gruppi che possono essere classificati in base alla propria disposizione mentale:

1. il gruppo degli aperti;

2. il gruppo dei chiusi.

Sia beninteso che non sto dicendo affatto che gli uni digeriscono senza discutere le conclusioni dell’esperimento e gli altri le contestano. La differenza sostanziale fra i due gruppi sta nel fatto che gli aperti si stupiscono, si appassionano, si ribellano aspramente, alle volte, all’idea che il paesaggio della metrologia sia fatto solo di monti solitari e non conosca invece né valli né pendii, e cercano magari di escogitare teorie ingegnose o bizzarre per smentire questa evidenza, mentre i chiusi accettano questo fatto con indifferenza o, più spesso, lo rifiutano senza spiegazioni e senza appello.

‒ Secondo me può anche venire una valle – sentenzia lo studente dei chiusi.

Quel secondo me mi colpisce come uno schiaffo, dopo che per due ore ho squadernato istogrammi a piramide a non finire. Le sensate esperienze di cui parlava Galileo, per quanto evidenti e numerose, non sono in grado di scalfire, neppure minimamente, la certezza dello studente contro la cui rocciosa opinione si infrange ogni evidenza sperimentale.

C’è sempre in agguato una ingenuità razionalistica pronta a frustrare molte delle mie ambizioni didattiche anche quando credo di essermi prodotto in una lezione impeccabile. Dimentico troppo spesso che una educazione dogmatica e conformista probabilmente è passata da un pezzo sull’intelligenza dello studente chiuso – ma un tempo sicuramente aperto – asfaltandola di pregiudizi e di luoghi comuni.

Contribuisce a ciò anche una discutibile ma diffusa sacralità dell’opinione la quale, in omaggio al principio democratico, per molti va considerata comunque rispettabile e soprattutto insindacabile.

‒ La scienza non è affatto democratica – vorrei allora dirgli sul muso – e di questo tuo genere di opinioni se ne infischia.

Ma non si può. Non sarebbe gentile, non sarebbe didascalico, ma soprattutto non sarebbe utile. Non capirebbe. Allora ammetto di abbandonarmi semplicemente, per qualche istante, ad una penosa prefigurazione dello studente chiuso il quale, divenuto ormai adulto, contribuisce in svariate maniere – non ultima quella elettorale – a ostacolare con le proprie impermeabili opinioni molte buone idee degli aperti, diventati anch’essi adulti, e rivolgo uno sguardo benevolo a qualche futuro rappresentante di questa categoria al quale, invece, ho fatto forse balenare davanti agli occhi qualche inatteso orizzonte di cui non sospettava l’esistenza.

Ma prof, alla fine si può sapere quanto era lungo il listello? – domanda qualcuno, interrompendo bruscamente le mie fantasie.

Domanda legittima, bisogna riconoscerlo. Può provenire indifferentemente dagli aperti o dai chiusi, ovvero dal gruppo di quelli che sono venuti dietro ai miei ragionamenti con interesse e docilità, oppure dal gruppo di quelli che hanno visto in tutte le mie elucubrazioni solo del fumo negli occhi, ma la resa dei conti alla fine deve arrivare, e il mistero va svelato.

Allora io prendo il listello fra le mani, lo mostro solennemente alla classe, come farebbe un vescovo ai fedeli stringendo una reliquia tra le mani in attesa del miracolo, e con uno studiato movimento delle dita lo faccio ruotare in modo che esso rivolga alla classe il lato che ho sempre attentamente evitato di mostrare, ovvero quello dove sono disegnate delle strisce colorate larghe esattamente quanto lo spezzone di matita e poi proclamo:

‒ Contiamo. Uno, due, tre, quattro…

Le strisce sono tredici. Ma tredici è anche il valore in corrispondenza della colonna più alta dell’istogramma in quasi tutte le combinazioni di dati prescelte, e tredici è il valore approssimato all’unità della media aritmetica delle misure eseguite: il piccolo miracolo si è compiuto – difficile pensare a un caso – e la classe rimane attonita per qualche istante.

Scusi, prof, ma allora che bisogno c’era di fare tutte quelle misure a occhio – domanda in genere uno dei chiusi, a questo punto – bastava misurarlo subito come ha fatto lei, una volta sola.

Trattengo a stento la soddisfazione, mi spoglio delle vesti sacerdotali con cui ho appena celebrato il piccolo rito pagano della rivelazione della lunghezza del listello e indosso quelle del politico di professione.

‒ Grazie per la tua domanda, come ti chiami? – si tratta del primo esperimento, e non ho ancora imparato a memoria i nomi degli studenti.

La risposta prevede alcune possibilità piuttosto remote – ma niente affatto assurde – che il semplice listello di legno, in realtà, possa essere:

1. una barretta di plutonio posta in una triplice teca di vetro al piombo;

2. il bastone di comando del maschio dominante di una piccola comunità di gorilla;

3. una preziosa dima, caduta sciaguratamente in fondo ad un burrone, ma indispensabile per riparare la macchina del tempo senza la quale gli eroi di una certa storia sono condannati a restare per sempre nel giurassico.

Gli studenti sono costretti ad ammettere che, in tutti questi casi, sarebbe impossibile o sconsigliabile avvicinarsi all’oggetto da misurare e che quindi, per determinarne la lunghezza, non ci sarebbe che da impiegare il metodo indiretto delle misure a senso appena utilizzato.

‒ Ma questo non è ancora tutto – aggiungo – guardate.

E così dicendo richiamo la loro attenzione sul fatto che l’ultima striscia disegnata sul listello è leggermente più corta delle altre, ovvero che il listello non è propriamente lungo 13 così (nome dell’unità di misura prescelta un anno da una classe per sottolineare la sua arbitrarietà), ma un po’ di meno.

‒ Quanto di meno? – chiedo alla classe, sapendo bene di tendere un ignobile tranello.

‒ 12,8 – precipita subito qualcuno.

‒ Come fai a dirlo? – cerco di metterlo in guardia.

‒ 12,9 – sprofonda un altro studente che non ha visto cadere il suo compagno.

‒ Allora 12,75 – ruzzola un altro.

‒ Ma come fate a dirlo? – insisto scaldandomi un po’ quando il tranello tracima ormai di studenti avventati – Non potete tirare a indovinare. Dovete ripetere molte misurazioni, come avete appena fatto, però con uno strumento più appropriato. Avete capito?

Il discorso volge al termine. Richiamo il concetto di sottomultiplo di una unità di misura, e sottolineo il fatto che quanto più si pretende di ottenere un risultato con numerosi decimali tanto più il compito appare difficile. Anche se non ci sono i gorilla a tenerci lontani dal valore preciso di una grandezza, infatti, il metodo della paziente ripetizione delle misure e del calcolo del valore medio è sempre quello più sicuro, sebbene non sia certo il più spedito. Suona la campanella e la classe sfila fuori dal laboratorio.

‒ Che cosa sarà rimasto di tante parole dette da una parte e dall’altra della cattedra? – mi interrogo dubbioso – Staremo a vedere.

L’anno scolastico è appena cominciato e così anche le mie imprese di paladino al servizio della conoscenza. Penso allora che durante l’estate appena conclusa ho ragionato tanto dell’arme, ma assai poco degli amori. Questi studenti, invece, si fanno amare e detestare con una facilità disarmante – come le donne dell’Ariosto – e quindi devo stare attento a mantenermi ben saldo in sella per raggiungere la mia meta, senza dimenticare, tuttavia, che la passione del cavaliere resta sempre l’arma più efficace.