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Autunno: la prova

11. La prima relazione: uno schema deve illuminare

Accanto alla prima relazione svolta, discussa nel paragrafo precedente e riprodotta per intero, ho presentato subito agli studenti anche lo schema del processo di stesura, affinché lo esaminassero, lo studiassero, e soprattutto istituissero gli opportuni collegamenti fra il prodotto materiale che ricevevano in visione e l’idea che lo aveva ispirato.

Qualche blanda concessione di questo schema al piacere grafico non deve indurre a pensare che si tratti di qualcosa di diverso da una semplice lista ordinata. In effetti, per la crescita cognitiva degli studenti io propugno tenacemente la pratica di processi lineari, in opposizione a qualsiasi mappa concettuale o ipertesto che si voglia proporre in sostituzione.

In questi anni – grazie soprattutto all’internet – si è diffusa l’opinione che l’ipertesto sia il modo migliore per esporre le informazioni, perché la forte interconnessione fra di esse, consentita ampiamente da questo mezzo espressivo, sarebbe molto vicina al modo nativo in cui le idee sono organizzate nella mente umana. Gli ipertesti, dunque – ma anche le mappe concettuali, le risorse multimediali, la stessa internet – sarebbero il modo più naturale per mediare le informazioni e i concetti fra gli essere umani.

Questi ipertesti nativi poggerebbero sui circuiti neuronali, costituiti dalle numerose sinapsi che interconnettono la massa dei neuroni. I circuiti neuronali, in effetti, sono proprio degli intricati bozzoli di informazioni tramite i quali la mente rappresenta le idee comuni a molti individui, ma l’enorme numero delle sinapsi di un cervello adulto e soprattutto la grande variabilità indotta dalla storia personale, dalle capacità e dall’emotività di ciascun individuo permette di escludere con certezza che possano esistere due mappe uguali per rappresentare un'unica, semplicissima idea.

Per esprimere questa pur semplicissima idea è necessario sottoporla a un processo di trafilatura linguistica affinché sia fruibile al di fuori della mente che l’ha concepita e che la conserva. In altre parole, occorre trasformare l’idea in un discorso – che per definizione è un processo lineare – dimodoché esso possa essere successivamente riconvertito in una complessa rappresentazione circuitale nella mente di chi recepisce il discorso.

Gli ipertesti, dunque, esistono davvero nella nostra mente, ma sono inaccessibili direttamente a qualsiasi altra mente; possono essere conosciuti, invece, a condizione di essere linearizzati tramite un atto linguistico interpersonale: un bel discorso, insomma, magari scritto.

In definitiva, perciò, l’idea dell’ipertesto a me appare essenzialmente come una bella metafora della mente, che tuttavia non ha alcun significato pratico. Per questa ragione ritengo sbagliato insistere nel voler considerare questa metafora come un valido mezzo di rappresentazione delle idee, e trovo invece necessario – soprattutto a scuola – dedicarsi a promuovere l’abilità nel produrre testi ben strutturati.

Secondo me, quindi, una relazione di laboratorio ben fatta è l’esplicitazione di un processo lineare concluso nel circolo virtuoso scopo-risultato-scopo.

L’idea di circolarità, però, va intesa semplicemente nel senso che innanzi tutto è necessario definire con chiarezza e precisione lo scopo del lavoro, e poi che è importante non perderlo mai di vista nel corso della stesura, la quale comporta diversi passaggi obbligati, fino all’approdo del risultato, che deve essere complementare allo scopo.

Se lo scopo è la domanda, insomma, il risultato deve costituire una risposta.

Fuori dal circolo figurano titolo, osservazioni e proposte, non tanto perché si tratta di elementi meno importanti – alle volte è vero il contrario – quanto perché essi rappresentano degli accessori utili per stimolare la riflessione e creatività.

Tornerò ripetutamente su questo schema di stesura, ma per adesso mi limito ad osservare che si tratta di un tipico sussidio didattico del genere fai-così-e-cosà che serve per spiegare il disegno generale che sta dietro a un lavoro piuttosto complesso, ma che secondo me risulta piuttosto sterile senza un complementare sussidio del genere guarda-come-si-fa, ovvero senza mostrare in pratica un saggio applicativo della teoria. La conclusione, perciò, è che c’è sempre bisogno di un sussidio articolato del genere fai-così-e-cosà-però-guarda-anche-come-si-fa.

In pratica, dopo il primo esperimento, ho subito presentato lo schema di stesura, ma prima di chiedere agli studenti di interpretarlo ho mostrato qual era la mia personale interpretazione, leggendo insieme con loro la relazione che avevo preparato.

A dispetto dell’apparente semplicità, tuttavia, ho dovuto registrare molto spesso la difficoltà di parecchi studenti nel dominarlo compiutamente, anche dopo la stesura di numerose relazioni. Per questa ragione ho preso l’abitudine di riprenderlo e di riproporlo sistematicamente al momento di presentare alla classe le relazioni corrette.

Quasi tutti gli studenti, comunque, hanno compreso subito, e con sufficiente chiarezza, che una relazione di laboratorio non è una entità isolata, ma è un elemento che si inserisce in maniera coerente in un insieme ben definito.

Devo ammettere che qualche avveduta minaccia ha contribuito sensibilmente a catalizzare questa rapida comprensione. Per molti studenti, infatti, la sistematicità del lavoro, intesa come metodica applicazione alla fatica mentale e alla produzione materiale, rientra nel novero delle bizzarre pretese dei professori. Fin dal primo giorno di lezione in laboratorio, perciò, ho istituito il quaderno di laboratorio, non solo per la necessità materiale di trovare un posto ai loro cimenti di letteratura scientifica, ma soprattutto per costituire una cornice organica alla raccolta di questi ultimi.

Apro la borsa ed estraggo un voluminoso quaderno ad anelli, zeppo di fogli imprigionati in altrettante cartelline di plastica trasparente. Lo mostro alla classe sfogliando le pagine, incoraggio tutti a guardarlo da vicino. Mi sembra estremamente importante che tutti colgano la fisicità di quell’oggetto, affinché ogni studente possa appagarsi dell’evidenza.

‒ Ecco, si può fare. Si fa così.

Ammetto che c’è un po’ di feticismo in questa esibizione, ma nella vita il problema non è evitare il feticismo, piuttosto è quello di scegliere i feticci giusti.

‒ Il quaderno di laboratorio – spiego suadentemente – va considerato, né più né meno, come un libro. Sarà il primo libro che scriverete (e magari neanche l'ultimo). Avete mai visto come è fatto un libro?

È incredibile. Non hanno mai visto un libro. Naturalmente essi credono di aver già visto fin troppo libri nella loro ancor breve esistenza, ma in realtà hanno visto solo tanti volumi, ovvero dei pacchi di fogli cartacei tenuti assieme da filo e colla.

‒ Sapete che cos’è un frontespizio?

Figuriamoci se sanno che cos’è un frontespizio.

‒ Sapete che cos’è un indice?

Qualche mano si alza timidamente, ma la maggior parte degli studenti nella classe ignora che cosa sia, oppure sospetta, ma tace per prudenza. Anche un accorgimento elementare come numerare progressivamente le pagine li sorprende, come se parlassi dell’invenzione dei numeri naturali nel processo di evoluzione culturale dell'umanità.

‒ Ma scusate: non siete mai andati diritti alla pagina – che so? – 123 di un libro a cercare un argomento preciso?

Appuro che tutti sono andati, una volta o l’altra, alla ricerca della pagina 123. Qualche ardimentoso si è spinto perfino oltre la pagina mille.

‒ E come facevate a sapere che dovevate andare proprio alla pagina 123? – chiedo educatamente.

Espressioni di perplessità. Apprendo che gli studenti sono al corrente dell’invenzione dell’indice e del suo utile impiego, e che non troverebbero accettabile un libro privo dei numeri progressivi alle pagine e dell'indice.

Ma allora perché trovano sorprendente che io li inviti con insistenza a numerare progressivamente le pagine delle loro relazioni e a corredare il quaderno di un indice? Chissà…

A ogni nuova relazione, puntualmente ricominciano: 1-2-3-4. Il che alle volte è già tanto, dal momento che spesso non c’è alcuna numerazione e le pagine sembrano fogli d’album sfiorati da un’ispirazione estemporanea.

Non parliamo poi della data, della quale ritengono che si possa spensieratamente fare a meno, forse perché la loro vita scolastica gli appare come un flusso senza storia, un penoso mito di fatica e di noia.

E tocca perfino considerare tutti questi difetti come dei peccati veniali, poiché non va naturalmente dimenticato il peccato mortale: sissignore, sto parlando nientedimeno che della mancanza del nome.

Esagero? Ma no che non esagero. E adesso cercherò di fornire una spiegazione psicologica di queste manchevolezze che li scagiona, in parte, dalle loro colpe.

Per molti studenti, secondo il mio parere, dimenticarsi di corredare i propri lavori scritti con le coordinate anagrafiche e cronologiche non è tanto indice di negligenza ma è una manifestazione di egocentrismo infantile di cui sono colpevoli solo marginalmente. Il grosso della responsabilità, infatti, ce l’hanno i loro genitori che non hanno saputo smussare negli anni, con una appropriata azione educativa, le manifestazioni più indesiderabili dell’innato egocentrismo di una giovane vita che si affaccia al mondo.

Queste manifestazioni sono innumerevoli, e spaziano dagli ululati infantili emessi al supermercato per affermare certe inclinazioni al consumo fino alla più sopportabile ‒ ma non meno grave ‒ propensione del giovane a non declinare spontaneamente le proprie generalità, persuaso che il mondo intero è costantemente chino su di lui per auscultare ogni palpito della sua volontà.

Riconosco che l'omissione del nome, della data, della numerazione delle pagine sulla relazione di laboratorio non è la conseguenza più grave di una educazione troppo indulgente verso l’egocentrismo infantile, però ha il suo peso anch’essa, soprattutto perché in questo particolare contesto è proprio quella che mi interessa di più.

Gli studenti non devono soltanto tenere il quaderno di laboratorio, ma devono anche:

1. corredare il quaderno di un chiaro frontespizio;

2. attribuire, intitolare e datare ogni relazione;

3. imparare ad usare le testatine e i piè di pagina di richiamo;

4. numerare progressivamente le pagine del testo;

5. aggiornare sistematicamente un indice utile per ricostruire tutto il lavoro svolto, comprese le eventuali omissioni per assenza giustificata o per negligenza.

Devono insomma cercare di produrre – anzitutto formalmente – dei testi scientifici in grado di non sfigurare troppo rispetto alla letteratura scientifica cosiddetta principale (tesi, articoli, saggi e trattati).

Per insegnare loro come si fa, quindi, in aggiunta a tante belle parole, sintetizzate nello schema di stesura, ho trovato necessario realizzare il mio personale quaderno di laboratorio e mostrare loro il mio frontespizio, il mio indice e tutto il resto, affinché fosse impossibile sfuggire all'evidenza.

‒ Ecco, si può fare. Si fa così.

‒ Posso mettere un disegno sul frontespizio? – domanda qualcuno.

Perbacco, nessun laureando si sognerebbe di mettere un bel disegno a colori sul frontespizio della propria tesi di laurea – amatissimi sono gli alambicchi e gli pseudomodelli atomici – ma dopotutto non siamo ancora all’università.

‒ Sì, purché sia sobrio.