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Autunno: la prova

12. Il secondo esperimento: righelli assortiti

Ho già riconosciuto il misfatto di aver sottoposto per tanti anni gli studenti all’ignobile esperimento del calibro e del parallelepipedo bislacco. Ora devo ammettere di aver fatto anche di peggio.

Subito dopo quel primo esperimento, infatti, mi disinteressavo con deprecabile disinvoltura di tante ubbie sulle incertezze sperimentali e li inducevo a prendere le misure dei successivi esperimenti semplicemente applicandosi con molta attenzione. Nient’altro.

Quell’embrione di teoria della misura che avevo introdotto non era perciò lo strumento concettuale fondante di tutta la futura attività di laboratorio, bensì uno degli svariati argomenti che sarebbero stati affrontati durante il corso. Non c’è bisogno di aggiungere che questa era una ragione di più per convincere gli studenti che tutta quella messa in scena di fare e rifare le misurazioni era solo un espediente escogitato per ammazzare un po’ di tempo. Del resto, ho imparato molto bene che gli studenti hanno una speciale propensione a ritenere che gran parte del lavoro che viene richiesto dall’insegnante sia del tutto privo di qualsiasi utilità. Per questa ragione, quindi, non è difficile chiedere a uno studente di svolgere un compito inutile senza aspettarsi che protesti fermamente. A partire dall’esperimento numero due, perciò, le misure sarebbero state prese una sola volta – come voleva il buon senso, del resto – naturalmente con molta attenzione.

L’occasione dell’arcinoto articolo 5, comma 1, lettera a mi indusse a riconsiderare in maniera radicale non solo il primo degli esperimenti di laboratorio, ma anche tutti i successivi, incentrandoli su questi tre assunti fondamentali:

1. in un laboratorio scientifico degno di questo nome – ancorché scolastico – si devono svolgere essenzialmente esperimenti quantitativi;

2. l’incertezza delle misure è una inesorabile realtà sperimentale, dunque essa va sempre opportunamente considerata in tutti gli esperimenti;

3. considerare l’incertezza sperimentale non è sufficiente: essa va anche valutata sistematicamente in relazione al contesto sperimentale.

Come conseguenza di questi assunti misi a punto, tanto per cominciare, una terna di esperimenti che avevano questi corrispondenti scopi didattici:

1. ricavare qualche certezza anche dallo strumento di misura più impreciso;

2. associare una incertezza anche allo strumento di misura più preciso;

3. valutare la qualità di una misura, che non dipende tanto dallo strumento impiegato quanto dal metodo adottato e dalle circostanze nelle quali si opera.

Il primo scopo didattico è stato illustrato; del secondo scopo mi accingo a parlare adesso; del terzo scopo didattico parlerò in un paragrafo successivo.

Concluso l’esperimento con il listello, digerita la discussione successiva all’esperimento e svolta finalmente la relativa relazione di laboratorio probabilmente gli studenti credono che non sentiranno mai più parlare di quell’insignificante pezzo di legno e dello spezzone di matita che era servito per misurarne la lunghezza. Ma si sbagliano.

Effettivamente lo spezzone esce di scena, ma non prima di aver lasciato una tangibile impronta di sé. Infatti ho realizzato un disegno molto preciso di quattro righelli graduati con la medesima unità di misura – lo spezzone, appunto, denominato così – e ne ho fatto stampare una copia su pellicola fotomeccanica per ottenere il massimo della nitidezza.

Qui ho riprodotto una parte di quei righelli, che sono lunghi poco più del listello. Bisogna tenere presente, inoltre, che un così (copyright dell'itis Augusto Righi di Corsico!) è lungo circa 24 millimetri.

Come secondo esperimento di laboratorio, perciò, chiedo ad ogni studente di eseguire quattro misurazioni della lunghezza del listello appoggiandolo in corrispondenza delle quattro scale e facendo attenzione ad allineare bene una delle due estremità con lo zero.

Torna a ripetersi la piccola sceneggiata metrologica con gli studenti, però questa volta l’atmosfera è più distesa e più amichevole. Su molti studenti la discussione collettiva ha prodotto un effetto tangibile, che si nota dalla serietà e dalla cura con cui procedono alle misurazioni, laddove prime c’erano state soprattutto sorpresa e perplessità. Non mancano, ovviamente, episodi di disarmante asineria che domino però con affabile distacco.

‒ Venti.

‒ Questa misurazione è senza senso – osservo quando lo studente distilla un valore scriteriato – vai a posto e ritorna quando avranno finito tutti gli altri.

Si forma così una piccola pattuglia di retroguardia che difficilmente dirà due volte cose prive di senso. In realtà, le prime tre misurazioni non presentano difficoltà, tranne quella minima di arrotondare il valore della misurazione alla divisione più appropriata della scala (1 così; 0,5 così; 0,1 così). Tutti – o quasi – trovano infatti il medesimo valore per ogni righello.

Il quarto strumento, invece, procura a tutti un salutare imbarazzo perché ha una sensibilità così elevata (0,02 così) che le misurazioni ottenute – sebbene vengano raccolte con la massima diligenza da parte di tutti gli studenti sotto il mio sguardo accorto – alla fine risultano tutt’altro che uguali fra di loro. Questa volta, però, non si tratta di misurazioni diverse relative a spessori diversi, come succedeva nello stupido caso del parallelepipedo bislacco; questa volta ci si trova di fronte a misurazioni diverse che si riferiscono però a una medesima lunghezza. Non potendo prendersela né con la sfortuna, né con la negligenza; non resta che ammettere l’evidenza che la misura esatta non esiste, o se esiste non sarà mai a portata di mano. Sembra che lo capiscano, finalmente.

Visto che gli studenti appaiono persuasi (o rassegnati) all’idea di disfarsi dell’ingombrante ambizione della misura esatta – giusta, nel lessico studentesco – è giunto il momento di definire il valore più attendibile e l’incertezza sperimentale della misura stessa. Per quanto riguarda il primo è facile giungere senza discussioni alla scelta condivisa del valor medio. La seconda, invece, è un affare più delicato e comporta molti altri ragionamenti, ma alla fine sembra di poter raggiungere un comune accordo.

‒ Allora, ragazzi, riassumiamo: da questo momento in poi, tutte le volte che faremo una misura in laboratorio ‒ e ho detto tutte le volte ‒ dovremo dichiarare qual è il suo valore più probabile, cioè il valor medio, ma anche qual è la sua incertezza, che serve a specificare l’intervallo di valori entro il quale il valore certo dovrebbe essere contenuto sicuramente.

La scelta della più appropriata espressione quantitativa di tale incertezza cade sulla discutibile ma comoda semidispersione delle misure Dx, che viene definita in questo modo:

dove xmax è la più grande fra tutte le misurazioni eseguite, mentre xmin è la più piccola di esse.

Naturalmente, per trattare in modo più efficace le incertezze sperimentali è meglio impiegare il concetto più complesso di errore quadratico medio o deviazione standard s che tiene conto di tutte le misurazioni eseguite e viene definita perciò come

dove n è il numero totale delle misurazioni e m è il loro valore medio.

Secondo me, però, per incominciare la semidispersione va benissimo. Verrà anche il momento della deviazione standard.

Dopo aver eseguito l’esperimento, e aver descritto il modo migliore per ricavare l’inesorabile incertezza delle misure raccolte, presento di nuovo alla classe la mia personale fatica di rielaborazione dell’accaduto, e propongo nuovamente la cerimonia della copiatura a scopo istruttivo.

‒ Allora mi raccomando, ragazzi, copiate con la mente, non copiate con la mano…

‒ Va bene prof…