parolescritte
interroga:  scripta  ·  bsu  ·  civita

itinerario verbale


pensieri verbali


Primavera: la maturità

30. Babbo Natale non viene più

Dal momento che è cambiata la materia (non più Laboratorio di fisica e di chimica, bensì Fisica e laboratorio) mi è sembrato giusto rinnovare anche il quaderno di laboratorio. In effetti, io ho sempre chiesto agli studenti di considerare il proprio quaderno di laboratorio come una testimonianza unitaria del lavoro svolto nell’ambito della materia e non dell’anno scolastico. Ho chiesto loro di numerare le pagine e le relazioni del quaderno in modo progressivo, per abituarli a lavorare intorno ad un’opera sistematica e coerente, perché essi tendono facilmente a considerare il proprio lavoro avulso da un contesto, il che si traduce concretamente nell’uso del famigerato foglio protocollo, sorta di unità di misura – senza multipli – della fatica scolastica che gli studenti tendono a colmare senza preoccuparsi di che cosa possa esserci stato prima e di che cosa potrebbe venire dopo.

La prima relazione del nuovo quaderno di laboratorio del triennio, dunque, è dedicata all’accurata misura di una grandezza fisica e alla successiva determinazione della sua incertezza, ovvero della deviazione standard (vedi la lista degli esperimenti).

Dopo aver indotto per due anni gli studenti a valutare le incertezze sperimentali ricorrendo alla cosiddetta semidispersione delle misure (Il secondo esperimento: righelli assortiti) – un metodo semplice e di facile apprendimento – mi sento un po’ come quel malvagio che svela ai bambini innocenti che Babbo Natale non esiste. Però è necessario farlo; anzi, spiego subito che da quel momento in poi la deviazione standard non sarà più solo una formulaccia da imparare a memoria, bensì anche un nuovo e affilato arnese da inserire nella propria cassetta degli attrezzi.

Dico la verità: ci restano un po’ male quando li condanno ad eseguire cento misurazione della stessa identica grandezza e poi li costringo a cuocerle in un raccapricciante mistone numerico di quadrati e di radici allo scopo di distillare il famoso sigma, ovvero il ragionevole attestato al 68% di aver trovato il mitico e inafferrabile valore vero della misura. Erano ormai così ben abituati a cavarsela con quel semplice calcolo del valore-massimo-meno-valore-minimo-diviso-due che adesso quel nefasto sigma gli appare una tortura intollerabile.

Timidamente, perciò, sondano le intenzioni del docente:

‒ Ma prof, adesso, tutte le volte che dobbiamo trovare l’incertezza assoluta, dobbiamo calcolare la deviazione standard invece della semidispersione?

‒ Come vi dicevo, Babbo Natale non viene più – rispondo seraficamente, mentre colgo inequivocabili espressioni di stupore sui volti studenteschi e avverto numerosi segnali di animo bellicoso.

‒ E dobbiamo fare tutti quei calcoli per ogni misura?

‒ Non è detto che dobbiate essere sempre voi a fare tutti quei calcoli.

‒ In che senso, prof? – si informano con una certa diffidenza.

‒ Beh, per esempio potete lasciar fare alla funzione deviazione standard del foglio di calcolo.

‒ E perché non ce lo ha detto subito che c’era una funzione apposta? – domanda qualcuno, dominando un fremito di collera.

‒ Per una questione che io definirei di scrupolo didattico – rispondo.

‒ E pensa che sarà didatticamente scrupoloso anche la prossima volta? – domanderebbero gli studenti qualora avessero già sviluppato una sufficiente attitudine al sarcasmo, mentre invece si limitano a dare libero sfogo al disappunto.

‒ No. Adesso che avete imparato come si fa, potete anche lasciar fare alla macchina.

Suona la campanella. Anche per il prof, alle volte, il suo squillo è di grande sollievo.

L’introduzione della deviazione standard, tuttavia, non è solo un pretesto per complicare la vita agli studenti seppellendoli sotto una valanga di numeri da far digerire al computer, dopo che essi hanno pagato il proprio tributo alla crudeltà del professore; essa è anche l’occasione per riprendere con più consapevolezza il discorso sulla distribuzione casuale dei valori di una misurazione che era stato avviato all’inizio della prima classe (Il primo esperimento: misure a senso).

Per dire la verità in questa ripresa non sembra più necessario contrastare i pregiudizi studenteschi secondo i quali la distribuzione a campana di un insieme di misurazioni debba essere messa in concorrenza con altri tipi di distribuzione (vedi altri improbabili paesaggi statistici). In realtà, se non fosse l’esperienza a dimostrare a posteriori che la distribuzione a campana è proprio quella corretta, si potrebbe dare credito prima di tutto al buon senso, in base al quale appare del tutto ragionevole pensare che si debba registrare un valore che si ripete molto spesso, e numerosi altri valori, progressivamente più grandi e più piccoli, che si ripetono con una frequenza che diviene sempre più piccola fino ad annullarsi.

Tuttavia il buon senso è un ottimo suggeritore ma anche un pessimo consigliere, e la storia della scienza è tutta lì per dimostrarlo. Il buon senso fa risparmiare molto tempo in molti casi comuni, ma ne fa perdere una quantità spaventosa in certe altre inattese situazioni.

Una recente ricerca di Albert-László Barabási (Link. La nuova scienza delle reti), per esempio, ha mostrato che il numero dei link che fanno capo ai siti che compongono il web non segue, come ci si potrebbe aspettare, una legge come quella che governa la distribuzione normale, graficamente rappresentata dalla ben nota curva a campana:

dove p rappresenta la probabilità che si verifichi l’evento atteso e k un parametro proprio della famiglia delle curve a campana, bensì una legge di potenza:

dove x è il numero dei link e k rappresenta un coefficiente che varia fra 2 e 3 per ragioni ancora ignote.

Quando mi imbatto in questioni sorprendenti come questa cerco sempre di trovare un’occasione per raccontarle agli studenti, affinché non si fidino troppo del buon senso, soprattutto di quello più insidioso, che consiste nella fossilizzazione delle idee nuove.

Naturalmente, non appena la maggior parte di essi mangia la foglia, ovvero capisce che si tratta di articoli di approfondimento, cerca subito fuori dalla finestra qualche occasione più stimolante per impegnare l’attenzione, ma alcuni di essi, comunque, si lasciano catturare. La riprova di ciò mi giunge al momento di correggere la relazione, quando mi vedo obbligato ad assegnare a qualche studente curioso e sagace quei famosi due punti alla voce fecondità dei criteri di valutazione. È chiaro che mai obbligo giunge più gradito, ma si tratta di un caso alquanto eccezionale. La norma, infatti, vuole che l’esame della relazione sia un’ingrata lettura di giudiziose ovvietà, intercalate da mai abbastanza rare idiozie. Come ho già detto, in queste occasioni parcheggio il mio sdegno nel foglietto delle topiche in attesa di trasformarlo in una inesorabile riprovazione al momento della riconsegna.

Alle volte sono tentato di condividere il pensiero di Richard Feynman, il quale, siccome riteneva che le sue straordinarie lectures tenute al Caltech fra il 1961 e il 1963 erano state un fallimento, prese in prestito da Edward Gibbon una frase del suo Declino e caduta dell'impero romano e scrisse nell’introduzione:

Il potere dell’insegnamento è raramente di molta efficacia tranne che in quelle felici situazioni dove è quasi superfluo.

Però bisogna aggiungere che Gibbon scrisse quella sentenza dopo aver lamentato che tutti gli sforzi di educazione e di istruzione profusi dall’imperatore Marco Aurelio per cercare di raddrizzare quel germoglio balordo del figlio Commodo erano andati delusi.

Ebbene, io non me la sento – non tutti i giorni, almeno – di considerare i miei studenti così refrattari a ogni disciplina come quell’indegno rampollo imperiale, mentre è proprio vero che, davanti a certi bravi studenti, all’insegnante sembra quasi di rubare lo stipendio. Rimane certo, comunque, che il lavoro didattico con tutti gli altri studenti è una magra conquista quotidiana che cresce tuttavia con la pazienza, con l’ostinazione e con una disposizione positiva.

L’accurata lettura delle relazioni, dunque, è stata una buona parte del mio lavoro quotidiano di insegnante di laboratorio e giuro che non me ne lamento più di tanto, perché in moltissimi casi il progresso degli studenti è stato tangibile, e quindi la mia fatica efficace.

Piuttosto, col passare del tempo ho incominciato a pormi – un po’ per curiosità e un po’ per interesse statistico – la domanda che dà il titolo al prossimo paragrafo.