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Primavera: la maturità

33. Cinematica problematica

Professori di laboratorio di tutto il mondo, riunitevi. E ditemi, per piacere, se qualcuno di voi è riuscito – almeno una volta – a fare un esperimento soddisfacente sul moto uniformemente accelerato, perché io non ci sono mai riuscito. Tutte le volte che ho cercato di mettere d’accordo il tempo e lo spazio nella formula

ho sempre dovuto registrare una sconfitta. Naturalmente ho sempre sfoderato con gli studenti il mio motto sull’ottimismo sperimentale (Gli esperimenti riescono sempre), però qualche volta è bene che gli esperimenti riescano veramente.

Quello che disturba, infatti, non è tanto il fatto che un esperimento non riesca, bensì è il fatto di saperlo in anticipo. Su questa cognizione, infatti, si infrange anche il più candido ottimismo e si ha la sensazione di barare.

Il programma è chiaro: studiare in laboratorio gli aspetti cinematici del primo e del secondo principio della dinamica, naturalmente senza gridarlo ai quattro venti, non perché sia un segreto, ma perché mi sembra giusto abituare gli studenti a studiare i fenomeni senza preconcetti.

Ora, qualcuno potrebbe scandalizzarsi nel sentir chiamare preconcetti i principi della dinamica, ma in verità è proprio così. Chi ha mai detto che i preconcetti debbano essere per forza sbagliati? Questo sì che è un vero preconcetto. I preconcetti possono essere giusti; noi viviamo quotidianamente, in realtà, immersi fino al collo in quel humus di preconcetti che si chiama senso comune, e non abbiamo proprio di che lamentarci. Ma non sempre i preconcetti sono utili, soprattutto in campo scientifico, come insegnano tutte le grandi scoperte. Acquisire una mentalità scientifica, perciò, significa prendere le distanze dal senso comune, e io non perdo una sola occasione per infondere questa idea agli studenti. Il primo e il secondo principio, dunque, possono aspettare.

Il programma, dicevo, è chiaro, come mostra la lista degli esperimenti: studiare come si muove un corpo:

1. quando è abbandonato a se stesso (legge del moto uniforme);

2. quando è soggetto ad una forza costante (legge del moto accelerato).

Croce e delizia di questi due esperimenti è la rotaia a cuscino d’aria, un’apparecchiatura gracile e costosissima di cui si parla soltanto nei cataloghi dei produttori di materiale didattico e in cui ci si può imbattere solo nei laboratori scolastici.

La rotaia a cuscino d’aria è un tubo cieco, ma fittamente bucherellato, dalla cui superficie può sfuggire dunque l’aria che vi si pompa dentro dall’estremità aperta. Quando essa è posta in posizione perfettamente orizzontale e vi si appoggia un oggetto conforme alla sua sezione quest’ultimo resta sospeso a pochi decimi di millimetro dalla superficie della rotaia, sostenuto dalla forza dell’aria che fuoriesce, ed è libero di muoversi pressoché in assenza di attrito.

Si capisce subito che l’inghippo sta tutto in nell’avverbio. Naturalmente nessuno si sogna di poter eliminare completamente l’attrito, ma tutti sperano di eliminarne una quantità sufficiente per studiare la meccanica in un laboratorio scolastico. E in effetti la speranza è fondata, quando si tratta di studiare il moto uniforme.

Si pone sulla rotaia l’oggetto – denominato slitta – gli si dà un ponderato colpetto in direzione orizzontale e poi si misurano spazi percorsi e tempi impiegati a percorrerli. Si fanno tutti i ragionamenti e i calcoli del caso e alla fine si giunge al risultato contemplato dalla meccanica, ma niente affatto prevedibile dal senso comune:

Se si ha l’accortezza di non estendere lo spazio delle misurazioni oltre un metro il risultato è in buon accordo con le aspettative: il grafico dello spazio-tempo mostra una serie di punti ottimamente allineati sopra una retta e il rapporto fra le variabili cinematiche si rivela ragionevolmente costante.

I guai sorgono quando si vuole andare a vedere che cosa succede qualora la slitta sia soggetta costantemente ad una forza. Dopotutto si tratta di una pretesa legittima, ma bisogna invece scontrarsi con una inaspettata difficoltà tecnica.

Procedo con ordine: ci sono due modi per far muovere la slitta sulla rotaia a cuscino d’aria sospingendola con una forza costante:

1. si fa trainare la slitta da un pesetto che cade. Il pesetto viene legato alla slitta per mezzo di un lungo filo sottile che gira attorno ad una carrucola posta ad una estremità della rotaia. Il peso cade, la slitta accelera;

2. si inclina leggermente la rotaia, che diventa perciò un piano inclinato; bastano pochi centimetri di dislivello fra una estremità e l’altra della rotaia e l’assenza di attrito fa il resto: la slitta vi scivola sopra con una discreta accelerazione.

Il primo sistema viene impiegato per studiare il rapporto fra forza ed accelerazione, mentre il secondo sistema torna più comodo per gli esperimenti di cinematica. I due sistemi, comunque, sono equivalenti, dal momento che c’è sempre una forza costante che sollecita la slitta a muoversi sulla rotaia; peccato che né l’uno né l’altro diano risultati che si avvicinino sperabilmente al risultato atteso.

Vado avanti, comunque, descrivendo l’esperimento con il secondo sistema. Qui si aprono almeno due strade; per eseguire le misure, infatti, può essere usato:

1. un ecosonar, cioè un dispositivo che intercetta almeno una volta al secondo la posizione della slitta sulla rotaia e registra in una tabella, grazie ad un sistema di acquisizione dati, tutte le informazioni relative allo spazio e al tempo;

2. una batteria di almeno dieci fototraguardi i quali svolgono lo stesso compito dell’ecosonar, sebbene in posizioni predeterminate; anche in questo secondo caso tutte le informazioni vanno a popolare una tabella.

Il bello dell’ecosonar è che esso permette di disegnare istantaneamente il grafico spazio-tempo. Il programma che lo governa, infatti, è così servizievole che già durante l’acquisizione dei dati si preoccupa di mostrare graficamente l’andamento del fenomeno. Quando la slitta ha terminato la sua corsa, perciò, si rimane colmi di scientifica ammirazione: ecco infatti disegnata sullo schermo del computer una bellissima parabola che rappresenta l’andamento di un moto accelerato che inizia da uno stato di quiete.

Peccato che quella non è la parabola di un moto accelerato che inizia da uno stato di quiete. Essa si adatta bene all’immagine mentale che abbiano della curva che descrivere quel fenomeno, ma purtroppo i nostri occhi si fanno sedurre facilmente da un emblema, ma sono assai meno sensibili alla necessità matematica. Nessuno, infatti, è in grado di distinguere con certezza, sulla base del grafico, la funzione

che descrive un moto accelerato che inizia da uno stato di quiete, dalla funzione

che descrive invece un moto accelerato che non inizia da uno stato quiete ma possiede una velocità iniziale v0.

Ho già discusso di questo argomento presentando un grafico nel quale due delle quattro curve sono disegnate a partire da queste due funzioni.

L’assaggiatore di vini, forse, per la sua diuturna pratica degustativa sa discernere due vini di sapore simile, ma quando ce li porgerà per l’assaggio noi approveremo ciecamente il suo giudizio, più vergognosi di contraddire la sua autorità che persuasi di una sensibile differenza.

Con le parabole il discorso mi sembra simile. Se qualcuno passasse le proprie giornate a discriminare parabole scrutandone attentamente i grafici – e trovasse anche qualcuno disposto a compensarlo per questa sua attività – forse al suo occhio saprebbe facilmente discriminare le due curve. Ma in mancanza di estimatori professionali di grafici siamo costretti ad affidarci alla discutibile idea di parabola disegnata nella nostra mente. E sbagliamo.

Per venire al dunque, dico che quando chiedo agli studenti di eseguire un esame quantitativo dei dati numerici della famigerata parabola prodotta dall'ecosonar, la questione s’imbroglia maledettamente perché i dati si adattano bene alla seconda equazione e male alla prima equazione. Ma la seconda equazione descrive un moto accelerato che inizia da uno stato di moto uniforme, e invece la slitta è ferma come un chiodo piantato sulla rotaia quando incomincia l’esperimento!

La prima volta che si è verificata questa imbarazzante confusione ho invocato naturalmente il mio principio secondo il quale gli esperimenti riescono sempre, perché anche dal più fallimentare degli esperimenti si può imparare qualche cosa, vedi per esempio il celebre caso dell’esperimento di Michelson-Morley, eccetera, eccetera.

‒ Che cosa dobbiamo imparare da questo esperimento, prof? – ha chiesto ovviamente qualcuno.

‒ Beh, per esempio la pazienza e l’umiltà – ho risposto io – perché spesso voi studenti credete che i buoni risultati scientifici si presentino diligentemente al primo appello, mentre invece, il più delle volte, ci vuole molta pazienza e molta umiltà prima di ottenere qualcosa di significativo.

Ma i buoni risultati, in questo caso, dopo aver mandato deserto il primo appello, mandano deserto anche il secondo, il terzo e così di seguito. E se la mia coscienza di insegnante può accettare tranquillamente un insuccesso inatteso, non può sopportarne uno prevedibile o addirittura annunciato, per cui rinnovo l'appello:

‒ Professori di laboratorio, ditemi, per piacere, se qualcuno di voi è riuscito a fare un esperimento soddisfacente sul moto uniformemente accelerato. Io non ci sono mai riuscito.

Non ci sono mai riuscito finché non mi sono imbattuto in un piccolo caso personale di serendipità. La serendipità – come spiega Tullio De Mauro nel suo Grande dizionario italiano dell’uso – “è la capacità di cogliere e interpretare correttamente un fatto rilevante che si presenti in modo inatteso e casuale nel corso di un’indagine scientifica diversamente orientata”.

Ebbene, la mia indagine scientifica non era granché diversamente orientata, dal momento che da tempo stavo sbattendo scrupolosamente la testa contro quel mistero di cui non riuscivo a venire a capo. Avevo eseguito tante prove, lontano dagli occhi degli studenti, per ottenere un risultato accettabile, ma non c’era stato niente da fare: i dati erano sempre buoni, ma a patto di ammettere che la slitta fosse già in moto quando invece era ancora ferma. Molto spiacevole. Davvero.

Alla fine, inaspettatamente, si presentò la soluzione, sottoforma di un secondo mistero. I dati finalmente venivano buoni per la slitta ferma, però non io riuscivo a capire quale fosse la ragione, visto che in circostanze apparentemente identiche ciò non si verificava.

Poi ebbi l’illuminazione: era la modalità di partenza della slitta che metteva in crisi l’esperimento.

Contro ogni aspettativa, infatti, fra il momento in cui la slitta ferma veniva rilasciata e il momento in cui essa cominciava realmente a muoversi passava praticamente un’eternità, dimodoché quando essa finalmente abbandonava, per così dire, il palo erano già trascorsi circa venti millisecondi. Questo tempo, però, non era conteggiato dal cronometro, per cui la slitta si presentava in anticipo all’appuntamento con i fototraguardi, il che, al momento dell’elaborazione dei dati, produceva il malaugurato equivoco. A questo punto, allora, credo che dovrei rispondere a queste due domande:

1. in che cosa consisteva l’intoppo?

2. che diavolo faceva la slitta durante quei venti millisecondi?

Ecco la risposta alla prima domanda. Quando alla slitta ferma era consentito di muoversi, grazie a un dispositivo elettromeccanico, le cose andavano bene; quando invece il dispositivo era solo meccanico le cose andavano male.

Non si pensi però che il primo era meglio del secondo: semplicemente, l’interruzione della corrente nella bobina dell’elettrocalamita nel dispositivo elettromeccanico produceva un disturbo elettromagnetico sul cronometro che iniziava subito a misurare il tempo, anche se il primo fototraguardo del cronometro, quello di avvio, non aveva ancora dato il consenso. In questo modo – per sbaglio! – veniva contato il numero giusto di millisecondi e la legge oraria del moto uniformemente accelerato era salva. Ovviamente, l’errore non si verificava con il dispositivo meccanico e quindi le misure risultavano paradossalmente sbagliate.

E veniamo alla seconda domanda. Dico subito che non ho una risposta convincente, ma che di fronte a questa difficoltà che mi ha messo in scacco per anni posso solo manifestare tutto il mio smarrimento di abitante del mondo macroscopico di fronte alla confusa e disordinata vita di quello microscopico. Riconosco, perciò, che il significato del sostantivo avvio non può esprimere l’idea di netta discontinuità fra la quiete e il moto, propria del mondo macroscopico, ma deve essere dilatato fino a esprimere l’indugio caotico della slitta la quale, entro una microscopica frazione di spazio, oscilla, rolla, beccheggia e infine si avvia caracollando per assumere gradualmente un movimento più disciplinato. Tutto questo avviene in soli venti millisecondi, che sono una nullità temporale, se vogliamo, ma sono comunque sufficienti per demolire un caposaldo della cinematica. Alla fine ho finito per vedere in questo smacco sperimentale una versione moderata dei paradossi di Zenone.

Il filosofo greco, infatti, con i suoi ingegnosi paradossi intendeva negare il movimento. Una slitta posta ad una estremità della rotaia a cuscino d’aria inclinata, per esempio, secondo Zenone non può mai raggiungere l’altra estremità della rotaia scivolandoci sopra. Dopo essere stata liberata dal vincolo che la trattiene, infatti, la slitta dovrebbe prima raggiungere la metà della rotaia, ma prima della metà dovrebbe raggiungere un quarto della rotaia, e prima ancora un ottavo e così di seguito. Ora, siccome non c’è un limite a questa suddivisione progressiva sembra evidente che la slitta non può raggiungere l’altra estremità della rotaia. Ebbene, tutti sanno che la slitta raggiunge di fatto l’altra estremità della rotaia, però è anche vero che questa grande certezza si sfilaccia un poco se si va a ficcare il naso in quello che succede in quei primordiali venti millisecondi di moto, se vogliamo chiamarlo così. È proprio vero che il mondo è sempre più complicato di come ci piace immaginarlo e che gli esperimenti, perciò, riescono sempre.