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Inverno: la riflessione

26. I dubbi della raccolta e le insidie della elaborazione

Eccomi di nuovo, dunque, con il foglietto delle topiche che ho compilato correggendo l’ultima relazione per tirare le somme del lavoro svolto. L’argomento raccolta ed elaborazione dei dati (vedi il pluricitato schema di stesura) raduna sempre un grande numero di voci: alle volte sono questioni minute; altre volte, invece, sono dei veri e propri macigni. Cominciamo dalle prime.

Imparare a fare una buona tabella, per esempio, non è una cosa difficile, però non è neppure un lavoro banale. I programmi di calcolo e di videoscrittura in circolazione aiutano molto in questa fatica. Anche troppo. Va a finire, perciò, che se non li tieni abbastanza a bada ti portano dove vogliono loro, come cavalli imbizzarriti, e alla fine ti ritrovi in una destinazione che non era quella che desideravi. Potrei fare molti esempi, ma valga uno per tutti, che riguarda proprio elaborazione dei dati.

Qualcuno sa dirmi perché i fogli di calcolo non sono in grado di formattare decentemente un numero in notazione scientifica?

Ormai nessuno sa più di preciso quante cose si possono a fare con un foglio di calcolo: molte utili, alcune inutili. Fra le pieghe delle tendine si nascondono tesori di comandi e funzioni di cui ignoro spesso perfino l’esistenza, ma quando si tratta di mettere un numero in notazione scientifica ecco che mi accorgo di avere ancora fra le mani una di quelle calcolatrici che regalavano una volta con il detersivo. Se si prova a convertire un numero decimale come

in notazione scientifica si ottiene l’espressione

che è quasi illeggibile. Non mi sembra di chiedere molto se pretendo

E aggiungo anche un’altra cosa importante: notazione esponenziale e notazione scientifica sono due cose diverse; alle volte serve la prima, alle volte serve la seconda; ma quando si usa la seconda al posto della prima il risultato è equivoco, ma questo è ciò che fa qualsiasi foglio di calcolo.

Ho riassunto questo discorso piuttosto delicato in una tabella di esempio.

N notazione decimale notazione scientifica geroglifica notazione scientifica leggibile notazione esponenziale leggibile
1 0,000572 5,72E-04 5,72 · 10-4 5,72 · 10-4
2 0,000677 6,77E-04 6,77 · 10-4 6,77 · 10-4
3 0,00112 1,12E-03 1,12 · 10-3 11,2 · 10-4
4 0,000997 9,97E-04 9,97 · 10-4 9,97 · 10-4
5 0,000345 3,45E-04 3,45 · 10-4 3,45 · 10-4
6 0,000228 2,28E-04 2,28 · 10-4 2,28 · 10-4

Nella prima colonna si può notare la semplice notazione decimale: dopotutto non è da buttare, se non ci sono troppi zeri; nella seconda colonna c’è la notazione geroglifica ereditata dalle calcolatrici del detersivo, l’unica disponibile; nella terza colonna c’è la stessa notazione, ma con un volto umano; nella quarta colonna, infine, c’è la notazione esponenziale dal volto umano con un esponente scelto arbitrariamente costante.

La notazione scientifica, come è noto, è nata per mettere in rilievo l’ordine di grandezza di un certo numero, ma quando è necessario mettere in tabella diversi numeri – molto grandi o molto piccoli – da confrontare fra di loro è preferibile scegliere la notazione esponenziale, non la notazione scientifica. Il numero della riga 3, per esempio, a prima vista sembra il più piccolo di tutti gli altri, ma invece è il più grande. Ci si rende subito conto di ciò quando lo si legge sulla colonna della notazione esponenziale, mentre la cosa non è altrettanto immediata nella colonna della notazione scientifica.

Più di un bravo studente si è accorto da solo di questa incongruenza e me l’ha segnalata. La cosa, come si può immaginare, mi ha fatto felice da una parte e mi ha rattristato dall’altra, perché ho dovuto confermargli che non c’è soluzione a questo problema, a meno che non si voglia intervenire manualmente sulla cella che contiene il numero decimale, ma in questo modo si perde una parte del prezioso automatismo che rende utile il foglio di calcolo.

Ma in fin dei conti queste sono bazzecole, lo ammetto. In genere, gli errori di notazione degli studenti sono ben più gravi di quelli del foglio di calcolo quando gli si lascia la briglia un po’ troppo sciolta.

Chiedere che mettano un numero costante e ragionevole di decimali, per esempio, sembra una richiesta stravagante e quando la assecondano, alle volte, usano l’approssimazione come una micidiale accetta.

Mi capita, per esempio, di leggere lungo un’intera colonna della tabella qualcosa come 1,1 N/kg, dove sarebbe stato più prudente scrivere 1,07 N/kg, 1,12 N/kg, 1,09 N/kg e così via.

Oppure pettinano amorevolmente lunghe chiome di decimali laddove, invece, un bel taglio netto sarebbe stato la cosa migliore, come nelle percentuali, per esempio.

‒ Se la calcolatrice o il foglio di calcolo hanno decretato 12,3456789% una ragione ci sarà – pensano di sicuro – perché buttare via tanta abbondanza?

A parziale discolpa degli studenti, però, devo riconoscere che spesso si vedono in circolazione – magari dove uno meno se lo aspetta – delle percentuali espresse con una inutile quantità di cifre. Non solo 12,3456789%, infatti, è una espressione ridondante; anche 12,34% lo è. Basta scrivere 12% per dare un’informazione abbastanza precisa.

‒ Nelle percentuali, ragazzi, sono sufficienti due cifre significative – sentenzio dopo aver consultato il foglietto delle topiche – nel 99% dei casi.

È chiaro, naturalmente, che magari è solo il 98,76%.

Un’altra nutrita serie di topiche di cui si riempie spesso l’omonimo foglietto riguarda i calcoli. Anche in questo caso, come ho già fatto in molti altri casi, ho coniato un motto: i numeri vanno nelle tabelle, i simboli vanno nelle formule.

La prima parte del motto viene digerita con facilità e quindi non c’è bisogno di spendere tante parole per convincerli. Alle volte, però, capita che la tabella sia piuttosto lunga e quindi la stampante la decapita, lasciando la testa su un foglio e la coda sul foglio successivo. Scorrendo la relazione, perciò, mi imbatto in pagine che contengono soltanto una massa tanto ordinata quanto incomprensibile di numeri imprigionati dentro una griglia.

‒ E questa sarebbe una tabella? – mi informo pacatamente, ostentando una tollerabile dose di sarcasmo.

Loro ammettono il disastro, ma incolpano la stampante che affetta le tabelle come la spada di un samurai. Allora io parto in quarta con la paternale sull’egocentrismo studentesco – naturalmente nella versione didattica – e poi ricordo le linee guida per realizzare una tabella che non sia solo un’accozzaglia di numeri, bensì una comoda maniera per rappresentare i dati.

1. ogni riga va numerata tramite una colonna di servizio che deve precedere tutte le restanti colonne;

2. le intestazioni delle colonne vanno ripetute ogni volta che è necessario separare le righe.

Un problema ulteriore sorge con i simboli e con le formule. Io esigo che le colonne della tabella vengano intestate con dei simboli chiari e univoci. Questi simboli devono essere opportunamente definiti e impiegati in apposite formule letterali inserite nel testo allo scopo di spiegare il significato dei numeri contenuti nella tabella stessa. Le formule, infine, devono contenere una uguaglianza che separa il simbolo della grandezza di cui si vuole ottenere il valore (per esempio x) dai simboli delle grandezze necessarie per calcolarlo (per esempio a,b e c). Tutto ciò equivale a scrivere, per esempio:

Cose ovvie, si dirà. Ma per molti studenti sembra più ostico recepire queste ovvietà che usare i congiuntivi nei propri sms.

‒ Scusa – domando per l’ennesima volta allo smemorato di turno – mi spieghi che cos’è questo? – e punto l’indice sull’ennesimo obbrobrio:

‒ È la semidispersione.

‒ Ah, ecco; e io come faccio a sapere che è la semidispersione?

‒ Gliel’ho appena detto.

Ma tutte le topiche che ho nominato, e innumerevoli altre che invece ho trascurato, perché altrimenti dovrei trasformare questo paragrafo in una litania infinita, sono questioni minute, come le ho definite all’inizio. Dico questo non perché si tratti davvero di cose irrilevanti, ma perché gli studenti vi inciampano principalmente per pigrizia, forse perché pensano che se il prof non le ripete almeno una volta ogni quindici giorni non si guadagna abbastanza lo stipendio.

C’è però una rappresentazione che mi tocca mettere in scena ininterrottamente per cinque anni e che non può essere attribuita solo all’infingardaggine studentesca: si tratta della inesplicabile, inossidabile e imperitura questione del grafico. La questione in apparenza è innocente, e si riduce ad una semplice domanda:

‒ Dove bisogna mettere il grafico nella relazione?

È ovvio che il grafico può essere collocato materialmente in qualsiasi posizione; naturalmente sarebbe meglio metterlo vicino al luogo dove se ne parla, ma va benissimo anche metterlo da un’altra parte, purché sia facile raggiungerlo. Ma non è di questo che parlo. Io parlo infatti del luogo che spetta al grafico nel percorso logico dell’elaborazione dei dati sperimentali, in particolare quando si va alla ricerca di una relazione di proporzionalità.

La regola, senza eccezioni, che espongo il primo giorno è lapidaria: il grafico va messo subito dopo la raccolta dei dati.

La trasformazione di una tabella in un grafico, infatti, è un procedimento analitico di insuperabile utilità per orientare la formulazione dell’ipotesi di proporzionalità, ma non è affatto un’operazione necessaria per raggiungere il risultato. E soprattutto: guai a fidarsene ciecamente.

Questo grafico qualitativo, per esempio, rappresenta quattro funzioni analitiche di andamento abbastanza simile, ma di sostanza molto diversa, almeno in tre casi su quattro.

La funzione A è una parabola senza termine noto:

la funzione B:

ha un esponente scelto in modo tale da essere distanziato opportunamente dalla successiva funzione C, che è una funzione quadratica:

La funzione D, infine, è una funzione esponenziale con un coefficiente scelto in maniera tale da distanziarsi anch’essa in maniera opportuna dalla precedente funzione:

Più di una volta ho mostrato agli studenti questo grafico, sfidandoli a indicare qual è la funzione che rappresenta la proporzionalità quadratica, tipica di molti fenomeni con cui essi si misurano, distinguendola dalle imitazioni.

Il risultato, come si può immaginare, è stato che nessuno di essi è riuscito ad indicare, se non per puro caso, la funzione C. La ragione è ovvia: è quasi impossibile distinguere a vista la curva di una proporzionalità quadratica; ci si deve accontentare di cogliere dal grafico un ragionevole suggerimento, che poi deve essere verificato per via di calcolo.

Non credo di aver enunciato una cosa straordinaria; semplicemente ho esposto un collaudato accorgimento di pratica scientifica. È proprio per questa ragione, perciò, che tutte le volte che sono costretto a inserire nel foglietto delle topiche la voce questione del grafico, sento una stretta al cuore, pensando alla piccola sceneggiata che mi aspetta.

Chissà perché, a molti studenti non vuole proprio entrare in testa il fatto che il grafico è una ben misera cosa nel procedimento di elaborazione dei dati. Forse:

1. non capiscono bene perché dedico tanto tempo a insegnare loro come devono realizzarlo e poi ne sminuisco il valore;

2. non si rassegnano all’idea che una cosa che costa molta fatica – soprattutto quando deve essere realizzata sulla carta millimetrata – abbia poco valore;

3. si lasciano incantare – come tanti altri, del resto – dalla fola secondo cui val più un’immagine di mille parole.

Chissà? Sta di fatto che in molte delle relazioni che ho corretto il grafico è il culmine della elaborazione.

L’ordine con cui vengono impiegati gli attrezzi dell'omonima cassetta, infatti, vi si trova capovolto. Il discorso, per esempio, punta diritto verso un certo tipo di proporzionalità, senza che venga spiegato per quale ragione, nel marasma dei dati raccolti, sia stata privilegiato proprio quel tipo di proporzionalità. La quale, d’altra parte, fortunatamente funziona, per cui è possibile trottare spediti verso il risultato finale, dopo aver elaborato il modello matematico.

Resta però l’imbarazzo del grafico. Che cosa bisogna fare del grafico che – non va dimenticato – vale mezzo punto quando è realizzato correttamente? Ecco allora che compare una rapida virata del discorso, prima della chiusura, che in genere suona più o meno così:

In conclusione, abbiamo stabilito che fra la grandezza tale e la grandezza talaltra esiste un rapporto di proporzionalità diretta, come dimostra chiaramente anche il grafico allegato.

Come dimostra chiaramente anche il grafico allegato. Diamine, ma che cosa potrebbe mai dimostrare, e per di più chiaramente, un misero grafico? A malincuore devo prendere atto dell’evidenza che il ragionamento scientifico dello studente è ancora zoppicante e mi vedo costretto perciò a penalizzare questa mancanza.

‒ Prof, perché mi ha tolto mezzo punto alla voce inquadramento scientifico? – viene a chiedere lui.

‒ Perché non hai ancora capito – spiego – che non ha senso discutere il grafico alla fine dell’elaborazione. Il grafico è un utile mezzo per orientare l’elaborazione successiva, ma di per sé non dimostra proprio nulla. Hai capito?

‒ Ma il grafico è una retta.

Adesso sai che può essere una retta, cioè solo dopo che ti sei ammazzato di calcoli per poter affermarlo con ragionevole certezza – sottolineo io.

Cala il sipario. Alla prossima relazione si replica.