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Primavera: la maturità

29. Si ricomincia da tre

Galileo pubblicò il proprio Annunzio sidereo il 13 marzo 1610, una settimana prima dell’inizio della primavera. Dopo aver passato una buona parte dell’inverno a scrutare il cielo con il nuovo strumento scientifico di cui si era dotato, egli tirava finalmente una somma provvisoria della propria attività di osservazione, divulgando delle notizie che avrebbero cambiato il corso della sua vita. Sicuramente cominciava per lui una personale primavera – nonostante all’epoca avesse già 46 anni – che sappiamo gli portò una grande reputazione ma anche terribili angustie.

Ho trovato due ragioni per ispirarmi all’Annunzio sidereo nel descrivere il primo biennio del lavoro che ho svolto per insegnare agli studenti come bisogna raccontare un esperimento scientifico. Credo che la prima ragione sia evidente: l’Annunzio sidereo è un classico fra i generi della letteratura scientifica, e dunque l’idea di richiamarmi ai classici, senza imbalsamarli, mi è sembrata una buona intenzione.

La seconda ragione, invece, è assai più personale: mi piace notare che Galileo ha realizzato con le proprie mani uno strumento con il quale ha guardato con occhi nuovi a un orizzonte ben noto da tanto tempo. In un certo senso, anche a me pare di aver fatto qualcosa di simile – a 47 anni – e se chi legge non sorride troppo di fronte a questo smisurato paragone sarà disposto forse a credere che non c’è alcuna presunzione nella mia riflessione, ma piuttosto uno spirito di umilissima emulazione del grande scienziato pisano. Mi auguro semplicemente di aver concepito un’idea di qualche utilità per la didattica e mi contento di ciò, sperando di non ricavarne neppure la millesima parte delle angustie che toccarono invece a Galileo.

Detto questo, pertanto, proseguo beatamente il discorso dicendo che anche per me si presentò dunque una nuova primavera perché, dopo aver cercato per due anni di insegnare agli studenti il metodo per condurre un esperimento scientifico, e in particolare il modo per raccontarlo nella maniera più chiara ed efficace, giungeva finalmente il tempo per tirare qualche somma e per raccogliere possibilmente qualche frutto.

Il passaggio dalla seconda alla terza classe del liceo scientifico-tecnologico è molto sensibile sotto diversi aspetti. Vi sono infatti delle materie nuove che entrano, per così dire, nello zaino dello studente (biologia, filosofia, informatica), materie che escono (diritto, scienze) e materie che si trasformano.

Qui interessa proprio il terzo caso perché il libro di testo della materia Laboratorio di fisica e di chimica non fa in tempo ad uscire dallo zaino dello studente di seconda che già subentrano Fisica e laboratorio e Chimica e laboratorio in quello dello studente di terza. La vecchia materia di carattere squisitamente metodologico, che può essere considerata la disciplina discriminante dei primi due anni del nuovo liceo di ispirazione marcatamente tecnologica, si scinde in due materie distinte dallo statuto più classico e dal programma più tradizionale. Non per questo, tuttavia, viene meno la necessità di affiancare allo studio teorico di queste discipline una frequentazione niente affatto rituale del laboratorio.

Ancora una volta, pertanto, io e il docente di teoria ci adoperiamo per cingere di nobile assedio gli studenti con le sensate esperienze e le dimostrazioni necessarie, entrambi assai compresi del valore immortale della lezione galileiana e ben determinati nel volerla svolgere compiutamente.

L’ultimo periodo mi è venuto un po’ pindarico, devo ammetterlo, ma c’è una buona ragione per manifestare in modo così fervido il mio pensiero e la spiego subito.

La scuola italiana è piena di bravi docenti che insegnano la fisica, per esempio nei licei scientifici e negli istituti tecnici. L’insegnamento della fisica negli istituti tecnici, tuttavia, soffre di un limite strutturale, poiché essa è programmaticamente una materia preparatoria alle discipline professionali del successivo triennio di specializzazione. Detto in parole più povere, i docenti di fisica – teorici e pratici – fanno un po’ di fisica per aiutare gli studenti ad affrontare successivamente materie come elettronica, elettrotecnica, o meccanica affinché i docenti di elettronica, di elettrotecnica o di meccanica non li ricevano orrendamente ignoranti negli argomenti di base. Del resto, non è facile svolgere con ragazzi quattordicenni e quindicenni un intero programma di fisica in due anni, e quindi è necessario adattarsi a raggiungere degli obiettivi relativamente modesti.

L’insegnamento della fisica nei licei scientifici tradizionali non soffre per varie ragioni di questi problemi, ma esso viene impartito in modo troppo astratto – secondo me – come se il grande pisano avesse lasciato scritto che il cuore dell’attività scientifica consiste in dimostrazioni necessarie e poi ancora in dimostrazioni necessarie, per essere proprio sicuri di non sbagliare. In linea di principio, ogni liceo scientifico è dotato di un laboratorio di fisica, ma chi ha frequentato un liceo scientifico tradizionale sa bene che questa risorsa è impiegata in maniera del tutto marginale, per la semplice ragione che non è previsto un docente che vi si possa dedicare con l’impegno necessario.

Il liceo scientifico-tecnologico, invece, non soffre né delle ristrettezze dell’istituto tecnico, né delle astrattezze del liceo scientifico, perché esso ammette:

1. la possibilità di svolgere adeguatamente un programma sistematico di fisica su un arco di tre anni rivolto a studenti di almeno sedici anni;

2. la possibilità di insegnare questa materia scientifica tramite una giudiziosa miscela di lezioni teoriche e di esperimenti di laboratorio.

Dunque torno a ripetere: ancora una volta, io e il docente di teoria ci adoperiamo per cingere di nobile assedio gli studenti con le sensate esperienze e le dimostrazioni necessarie per istruirli nella meccanica, nella termodinamica, nell’elettrologia, dopo che questi stessi argomenti sono già stati introdotti in maniera meno sistematica nel biennio di Laboratorio di fisica e di chimica, che aveva come scopo principale l’acquisizione del metodo scientifico di lavoro.

Io avevo già un obiettivo didattico, un programma di lavoro, un metodo di svolgimento e un criterio di valutazione per il biennio; dovevo cambiare qualche cosa dei miei propositi adesso che entravo nel triennio? Dopo averci pensato sopra per bene conclusi che la risposta era:

Sostanzialmente no.

Se lo scopo fondamentale del mio lavoro, infatti, era insegnare agli studenti a scrivere una relazione di laboratorio non potevo certo dire che questo scopo fosse stato raggiunto compiutamente nel corso del biennio per la disarmante ragione che se ero riuscito ad insegnare a qualcuno a scrivere una sopportabile relazione mi restava ancora da insegnargli a scriverne una che fosse passabile.

Con quelli che avevano già raggiunto questo traguardo, invece, potevo pormi lo scopo di insegnare loro a compilare una discreta relazione, e poi quello di una buona e forse addirittura di un’ottima relazione di laboratorio. Insomma, il mio obiettivo didattico non era di quelli che ammettono un traguardo vero e proprio poiché non si può pensare di apprendere a scrivere una relazione come si apprende a calcolare una derivata. Non esiste alcun algoritmo per imparare a scrivere una relazione, mentre ne esiste almeno uno per calcolare la derivata.

Mi sono imbattuto, d’altra parte, in casi non rarissimi di studenti i quali, dopo aver letto la prima delle mie relazioni e dopo aver assimilato l'ormai arcinoto schema di stesura hanno incominciato a scrivere buone e perfino ottime relazioni e non hanno più smesso. È evidente che per questi pochi studenti il mio lavoro è servito essenzialmente per disciplinare e snellire il loro. Ma la scuola non è fatta per gente speciale, è fatta per gente normale che deve conquistare a caro prezzo i propri risultati.

A volte mi sono immaginato come un collega di quei docenti che insegnano nelle scuole di scrittura creativa. Penso che da una di queste scuole non sia mai uscito – grazie solo a queste scuole – un vero scrittore di razza, per la semplice ragione che una grande scrittura discende essenzialmente dal talento naturale e dalla ricchezza interiore e queste non sono abilità che si imparano; ma ciò non impedisce assolutamente che in queste scuole si possa diventare, per esempio, dei passabili oratori, dei discreti sceneggiatori e forse addirittura dei buoni romanzieri. Allo stesso modo io puntavo a preparare passabili relatori, discreti tesisti, forse qualche buon redattore.

Trovavo che anche il metodo di svolgimento del lavoro non aveva bisogno di ritocchi sostanziali. Mi pareva opportuno continuare a presentare agli studenti un elaborato svolto, in maniera che essi venissero sollecitati, ma al tempo stesso confortati, sulla spinosa questione del come-si-fa. Semmai, per non abituarli a troppa grazia, che spesso induce a troppa pigrizia, giudicai che era il caso di rendere saltuario il sistema inaugurato nel biennio: decisi perciò di presentare solo alcune parti di relazione svolta, quelle giudicate volta per volta più critiche, e di lasciare alla sagacia e alla fatica degli studenti il compito di immaginare il resto.

Questo non toglie che le parti lasciate a priori in bianco non potessero essere mostrate a posteriori, ovvero quando il danno era fatto, per usare un’espressione cara agli studenti. I quali, in genere, non mostrano di gradire particolarmente questo sistema che io invece giudico molto utile per evitare di ripetere due volte lo stesso errore. Forse, se così non fosse, non sarebbero studenti.

Del criterio di valutazione non trovavo davvero nulla da cambiare. Era il programma di lavoro, invece, a dover mutare sensibilmente, poiché doveva adattarsi al programma di una materia che aveva mutato di sostanza: era divenuta più mirata, più approfondita, più difficile.