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Primavera: la maturità

43. Cose più grandi di noi

Ci sarebbe anche un’ultima domanda, per la verità, che dovrei pormi alla fine di questi sette anni di lavoro, ed è la seguente:

‒ Ma che cosa ho fatto, in definitiva, in tutto questo tempo?

Ecco la risposta:

‒ Ho cercato di insegnare agli studenti come si applica il buon senso per rivelare le insidie del senso comune.

La scrittura tecnico-scientifica non è altro che l’applicazione sistematica del buon senso in letteratura, dopo che esso è stato codificato in norme e regole ben precise.

Anche la complementare scrittura creativa, per la verità, è soggetta a norme e regole, tanto è vero che esistono apposite scuole dove è possibile apprendere queste norme e queste regole, però bisogna ammettere che in queste scuole non si impara ad essere creativi usando le parole, bensì ci si esercita solo a riconoscere, classificare e imitare la creatività letteraria di coloro che l’hanno manifestata per primi.

La scrittura creativa resta perciò un’entità misteriosa, una compagna infedele pronta a sposare la penna del primo che passa per poi abbandonarla e correre dietro a quella di qualche altro sconosciuto. La scrittura tecnico-scientifica, invece, è una massaia operosa, di sicuro è meno seducente di quella creativa, ma è affidabile, servizievole, fedele. L’età, ovviamente, ha la sua importanza perché la nascita della scrittura tecnico-scientifica risale circa alla metà del Seicento, mentre quella creativa rinasce ogni volta che qualcuno si mette su una strada nuova.

Da buona massaia, dunque, la scrittura tecnico-scientifica ha selezionato, nel corso del suo lungo e apprezzato servizio, tutti gli strumenti atti a rendere un testo chiaro, completo e possibilmente breve, eliminando nello stesso tempo tutto ciò che può appesantirlo o fuorviarlo dallo scopo prestabilito. In altre parole, essa si è evoluta per assecondare sempre meglio le esigenze di chi ha bisogno di acquisire delle informazioni in modo rapido ed efficace.

Io mi sono sforzato di insegnare il buon senso ai miei studenti mostrando loro come si scrive una relazione di laboratorio poiché credo fermamente che questa espressione della letteratura tecnico-scientifica, sebbene sia di certo la più umile fra tutte, nondimeno merita una propria dignità, perché su di essa dovrebbero appoggiare tutte le successive (tesi, articolo, saggio, trattato).

Non è affatto un’impresa facile insegnare il buon senso agli studenti. D’altra parte, è destino di ogni adulto che per qualche motivo abbia a che fare con persone giovani constatare il repellente effetto che il buon senso produce spesso sulle loro menti, prima che esso venga accettato e giudiziosamente metabolizzato.

Nel mio piccolo, come insegnante di laboratorio, io mi sono sforzato di comunicare una tecnica di applicazione del buon senso al modo per raccontare un esperimento scientifico. Ho spiegato, per esempio, che sempre è buona norma intestare un foglio di carta con il proprio nome, prima di scriverci sopra qualche cosa, e così di seguito, relazione dopo relazione, fino a comunicare un nutrito insieme di cognizioni di travolgente ovvietà.

Può apparire bizzarro definire della scrittura tecnico-scientifica come manifestazione del buon senso, ma d’altra parte si deve ammettere che

1. nessuno, in una tesi di laurea, si sognerebbe di introdurre il nocciolo della questione trattata a due terzi del discorso;

2. nessuno si abbandonerebbe a estenuanti divagazioni in un articolo scientifico;

3. nessuno si affiderebbe al flusso indisciplinato dei pensieri per stendere un saggio o addirittura un trattato.

In una tesi, in un articolo, in un saggio e in un trattato – ben fatti, s’intende – l’autore metterà proprio quello sa di dover mettere, cioè un distillato di buona sostanza e di chiarezza, frutto di un secolare lavorio di affinamento della tecnica redazionale.

Ecco, ma il mettere proprio quello che si sa di dover mettere non è forse l’essenza del buon senso? Io credo di sì, e credo anche che il trovare proprio quello che ci si aspetta di trovare sia invece l’essenza del senso comune. Lungi dall’essere sinonimi, come qualcuno forse ritiene, buon senso e senso comune sono al contrario due aspetti complementari di una medesima realtà.

Io mi aspetto, per esempio, di trovare delle lettere nella cassetta delle lettere ed effettivamente, quasi ogni mattina, ci trovo delle lettere, perché ce le mette il portalettere. Ebbene, la mia aspettativa è una questione di senso comune perché il portalettere, di norma, porta le lettere e le mette nella cassetta delle lettere, mentre il comportamento del portalettere è una questione di buon senso, perché egli sa che deve portare le lettere e metterle nella cassetta delle lettere.

Io non mi aspetto di trovare trappole per topi nella cassetta delle lettere e il portalettere, per fortuna, non ce le mette. Dunque il buon senso del portalettere è ciò che asseconda il mio senso comune, e viceversa il mio senso comune non viene mortificato dal portalettere.

Tutto ciò è piuttosto ovvio, però vale solo per la vita quotidiana, è questo mi sembra molto meno ovvio. In ambito scientifico, infatti, la partita col senso comune è sempre molto incerta, poiché la conoscenza scientifica talvolta ha determinato una conferma del senso comune, ma altre volte ne ha rappresentato una clamorosa smentita. A me, infatti, piace considerare l’attività scientifica proprio come una scommessa ragionata sulla conferma o sulla smentita del senso comune.

Questa considerazione, però, sovverte la serena cooperazione fra buon senso e senso comune che ho applicato al lavoro del portalettere, perché conduce a considerare l’attività scientifica come un portalettere che talvolta introduce trappole per topi nelle nostre consolidate e placide certezze.

Verso i miei studenti, perciò, io mi sono comportato da un lato come un imprevedibile portalettere che talvolta ha introdotto delle trappole per topi nelle loro solide certezze di adolescenti, e dall’altro come una massaia assennata che ha cercato di educarli a descrivere le loro esperienze impiegando il più consumato buon senso.

L’ho fatto svolgendo esperimenti banali e meno banali di fronte ai quali, tuttavia, la mente degli studenti stupisce e spesso recalcitra. Già il primo esperimento di misura a senso di un listello di legno produce, nella sua apparente ingenuità, grandi effetti di rigetto in difesa del senso comune, ma vorrei anche ricordare almeno il paradosso idrostatico (vedi Lasagne a scuola) e la legge di gravitazione universale (vedi Ma allora è vero!).

In realtà, io mi ero già persuaso da tempo del fatto che la conoscenza scientifica progredisce a scapito del senso comune, però avevo associato questa contraddizione soprattutto alla scienza moderna: relatività e quanti, per intenderci sottovalutando il fatto che per gli addetti ai lavori – tecnici, scienziati, insegnanti – il rifiuto del senso comune finisce per diventare buon senso esso medesimo.

Sono grato agli studenti, perciò, che mi ricordano ogni giorno che non c’è proprio mai nulla da dare interamente per scontato e che le insidie del senso comune si annidano dappertutto.

Dopo aver tentato di vaccinarli contro le trappole del piccolo senso comune, perciò, alla fine del mio percorso mi chiesi se non era il caso di lanciarsi, almeno per una volta, nell’ultimo esperimento della quinta classe, anche nella scommessa sul grande senso comune, ovvero quello messo in discussione dalla relatività e dalla meccanica quantistica.

La risposta ovviamente fu positiva ma i problemi apparivano e restano numerosi. Anzitutto ci sono quelli tecnici, dal momento che per eseguire un esperimento di fisica moderna servono apparecchiature che vanno ben oltre le risorse di una scuola secondaria superiore. Anche il tempo, inoltre, crea enormi difficoltà, visto perché si può dimenticare che l’esperimento va svolto nelle canoniche due ore settimanali messe a disposizione dall’orario scolastico. Praticamente impossibile. E tutto ciò, infine, senza contare che il bagaglio teorico necessario per affrontare un esperimento del genere non è proprio quel che si dice una banalità. Troppo complicato. Cose più grandi di noi.

Ero rassegnato a rinunciare all’idea quando mi imbattei nell’esperimento che William Bertozzi svolse nel 1963-1964 sui limiti che la natura impone alla possibilità di accelerare una particella.

Questo esperimento, infatti, costituisce una convalida della relatività ristretta ma è di concezione piuttosto semplice e necessita di un impianto teorico più che sopportabile. Quello che mi serviva per realizzarlo erano una banale termocoppia, un contatore di carica elettrica, un oscilloscopio, una macchina di Van De Graaff e naturalmente un acceleratore lineare da 15 MeV, qualcosa di un po’ più efficiente del mio acceleratore lineare denominato lasagna.

Per fortuna tutto questo non era assolutamente un problema, dal momento che ci aveva pensato a dovere la pssc realizzando un film condotto nientemeno che dallo stesso Bertozzi nel quale, senza troppi sconti, veniva spiegato ed eseguito il celebre esperimento.

Sto parlando naturalmente di uno di quei meravigliosi film didattici che il mio collega di teoria cinefilo, molti anni addietro, mi obbligava a somministrare agli studenti per narcotizzarli e renderli innocui.

Credo di non aver mai visto nulla di altrettanto brillante, sotto il profilo didattico, come quella serie di film. Purtroppo, però, molti di essi mostrano esperimenti di natura rigorosamente quantitativa, con dimostrazioni e calcoli svolti senza troppi complimenti. Inoltre stati girati in bianco e nero negli anni Sessanta, e i conduttori sono gli stessi docenti universitari che li hanno ideati e che li interpretano indulgendo ad un umorismo un po’ datato.

‒ Come reagiranno gli studenti? – mi chiesi, e nel dubbio passai un intero pomeriggio a controllare i calcoli mostrati nel film e un’intera giornata a stendere la relazione di laboratorio, come se al posto dello scienziato americano ci fossi stato io a smanettare sull’acceleratore lineare.

‒ Prof, ma è bellissimo! – mi disse Stefano Z. alla fine della proiezione.

‒ Stefano – domandai sospettoso – mi stai dicendo che trovi bellissimo questo vecchio film di quarant’anni fa, con le immagini in bianco e nero e l’audio che frigge?

‒ Sì.

‒ Stefano, mi stai prendendo per il sedere?

‒ No.