parolescritte
interroga:  scripta  ·  bsu  ·  civita

itinerario verbale


pensieri verbali


Primavera: la maturità

38. Matematica, fisica e musica

Insomma, un docente è sempre un po’ sul palcoscenico di un teatro, e qualche volta nell’arena di un circo. Siccome però quest’ultimo ruolo, in fondo, non mi dispiace – a piccole dosi, s'intende – per una volta ho cercato di fondere il rigore degli esperimenti quantitativi con l’inevitabile improvvisazione del circo didattico.

Quando si parla dei fenomeni ondulatori non mancano le occasioni per affrontare il tema nell’abituale maniera quantitativa, sia dal punto di vista della meccanica, studiando la conservazione dell’energia in una massa oscillante, sia dal punto di vista dell’ottica, determinando la lunghezza d’onda agli estremi dello spettro visibile (vedi la lista degli esperimenti). Ma sul terreno dell’acustica ci si può permettere qualche libertà, perché dai suoni alla musica il passo è breve, e la musica – si sa – prima di tutto è un’arte.

La commedia si svolge in tre atti, e dura perciò tre settimane. Gli studenti vengono inondati da una copiosa quantità di informazioni e di esperimenti – praticamente si tratta di un piccolo corso nel corso – e alla fine devono produrre un adeguato resoconto, simile però più ad un articolo di divulgazione scientifica che alla tipica relazione di laboratorio.

La difficoltà principale, in questo caso, consiste nel togliere dalla pingue massa delle nozioni comunicate quelle da giudicare secondarie e successivamente nell’organizzare le rimanenti nozioni in un discorso ben formato.

Non è affatto una cosa facile. Il discorso, infatti,

1. comincia sul terreno della matematica, trattando astrattamente della funzione sinusoidale e del principio di sovrapposizione;

2. prosegue su quello della fisica, con una analisi rigorosa del concetto di suono;

3. si conclude su quello della musica, con una esplorazione scientifica di alcuni aspetti dell’esperienza estetica consentita dall’arte dei suoni.

Gli studenti sono degli avidi consumatori di musica ma sono anche piuttosto ignoranti in materia, prima di tutto perché il nostro sistema di istruzione secondaria – anche quello classico – non contempla il fatto che la musica debba entrare nel bagaglio culturale di una persona colta; cioè: pare che non si possa vivere senza Pindaro, Catullo e Montale; ma di Josquin Des Pres, di Händel e di Stravinskij si può fare benissimo a meno.

Poco male, direi quasi, perché se lo studente spesso detesta i poeti, semplicemente ignora i musicisti: lontano dal banco – come dice il proverbio – non porge il suo fianco.

Questo non significa, però, che gli studenti non ascoltino musica; al contrario, sono immersi perennemente in un universo sonoro, tanto che l’immagine dell’adolescente che ciondola con gli occhi persi e l’orecchio connesso via cavo al lettore mp3 è diventata ormai familiare a tutti.

E sono anche certi di essere dei grandi esperti, persuasi del fatto che consumare tanta musica equivale automaticamente a intendersi tanto di musica.

In realtà, la maggior parte di loro non sa riconoscere né un clarino né un intervallo di ottava, ma questo sembra un fatto secondario, poiché nel loro immaginario collettivo la musica è un’emozionante pressione che si esercita di norma sui timpani e occasionalmente sul diaframma, e se un adulto si avventura a discutere con loro su questo argomento lo fa a proprio rischio e pericolo.

A dire il vero un musicista come Berlioz non aveva un’idea della musica molto diversa da quella degli adolescenti – e visse in pieno Romanticismo – dunque sarebbe ingiusto prendersela con la musica che parla soprattutto all’emotività e procura principalmente un piacere fisico.

Non andrebbe dimenticato, tuttavia, che la musica parla anche all’intelletto, e quando lo fa non può essere consumata, bensì va conquistata. Il compito disperato che mi prefiggo con queste tre lezioni, dunque, è far conquistare agli studenti un po’ della musica che parla all’intelletto, sia quello scientifico, sia quello estetico.

la matematica. Incomincio parlando della funzione sinusoidale e del principio di sovrapposizione che sono gli ingredienti basilari di ogni generico concetto di onda, e dunque di ogni suono, dato che un suono non è altro che un’onda sonora.

Prima di tutto genero al volo, con il foglio di calcolo, 360 valori di una prima funzione sinusoidale che chiamo onda A e la proietto sullo schermo. Una funzione sinusoidale, di solito, viene rappresentata come una curva armoniosa, ma si tratta di un piccolo trucco, perché in realtà l’effetto d’insieme è ottenuto grazie alla disposizione molto ravvicinata di una grande quantità di punti isolati, come si può notare nel grafico che segue.

Analiticamente l’onda A può essere espressa così:

dove Θ è un angolo, poiché le funzioni sinusoidali – progenitrici di tutte le onde di questo mondo – abitano in un astratto spazio angolare, ed A rappresenta il coefficiente di ampiezza della funzione, che è quel parametro che permette di stirarla o di restringerla sull’asse verticale.

Genero poi altri 360 valori di una seconda funzione sinusoidale, che chiamo onda B e che solo in apparenza è più complessa dell’onda A:

In realtà questa seconda funzione sinusoidale è del tutto simile alla prima. L’unica differenza è che essa contiene più parametri, e quindi può essere disegnata in modo più flessibile.

Tramite il parametro B se ne può decidere l’ampiezza, cosa che è possibile anche con l’onda A mediante il corrispettivo parametro A. Ma dell’onda B è possibile anche modificare la frequenza, per mezzo del il parametro F che la stira e la comprime in senso orizzontale; ed è possibile altresì modificare la sua posizione sull’asse orizzontale, facendola scorrere verso destra o verso sinistra, modificando il parametro φ che è il cosiddetto l’angolo di fase.

Modificando i quattro parametri (A, B, F e φ) si ottengono configurazioni abbastanza diverse delle due onde, ma il bello viene quando si prova a rappresentare la somma a+b delle due onde, una operazione consentita grazie al principio di sovrapposizione che in parole povere dice che è possibile sommare punto per punto due onde qualsiasi.

Non ci vuole molto per convincersi che il risultato della somma produce delle forme che sono considerevolmente diverse dalle funzioni sinusoidali primitive. Per esempio così:

Oppure così:

Ma anche così (tenete a mente questo esempio):

Si tratta di un risultato insieme sconcertante e meraviglioso, e per rendere l’effetto ancora più straordinario faccio in modo che il foglio di calcolo generi a caso – senza farli ancora vedere – i valori dei quattro parametri. In questo modo, premendo ripetutamente un bottone, lo schermo del computer si trasforma in un caleidoscopio di forme semplici o bizzarre che è davvero un piacere stare a guardare.

Davanti a una tale varietà di effetti non faccio alcuna fatica per convincere gli studenti di che cosa si potrebbe ottenere dalla somma di dieci o addirittura cento sinusoidi.

Incassato il consenso su questo punto, passo alla fase successiva. Ricordo che, nonostante l’effetto mirabile, l’onda A+B non è altro che una semplice lista di 360 numeri, che a noi umani piace rappresentare sopra un grafico cartesiano per coglierne, diciamo così, l’essenza, ma che resta un’arida sequela di cifre.

Per questa ragione registro la lista dell'ultimo grafico in un normalissimo documento di testo e chiudo il foglio di calcolo. Poi mostro alla classe la lista registrata che appare proprio per quello che è: una noiosa sequenza di numeri decimali. Faccio come il prestigiatore quando mostra al pubblico gli innumerevoli pezzetti di carta in cui ha appena ridotto il giornale, in preparazione di qualche meraviglia.

N ampiezza onda A+B
1 2.12132034355964
2 2.07289152559522
3 2.01484204967115
4 1.94793284250274
5 1.87296770320376
356 2.195988904624
357 2.20532027895344
358 2.20199596637861
359 2.18650954992687
360 2.15941430204462

‒ Che cosa è rimasto – domando a questo punto – delle due funzioni primitive in questa profusione di numeri?

Niente, in apparenza. Il parere della classe è concorde. Dell’onda A+B restano solo 360 minuscoli frammenti, come altrettanti pezzetti di giornale, mentre delle onde primitive A e B sembra essersi persa irrimediabilmente ogni traccia.

Allora apro una piccola applicazione che ho preparato a questo scopo e le faccio ingoiare il pistolotto. E qui – altro che magia da prestigiatore – qui avviene un vero e proprio miracolo, di quelli che piacciono a me.

Tanto per cominciare: ecco ricostituita l’onda A+B che è mostrata nell'ultimo grafico. Veramente qui c’è ancora poco di miracoloso, ma l’occasione è buona per spiegare alla classe che cosa significano davvero termini come digitalizzare, sintetizzare, campionare e via discorrendo, visto che su questo argomento l’ignoranza ‒ nonostante qualche pretesa spesso infondata ‒ è abbastanza diffusa. Riassumo il discorso:

‒ Prima di tutto abbiamo sintetizzato due onde in maniera digitale, cioè scrivendo dei numeri. Abbiamo adoperato il foglio di calcolo che non è proprio il massimo della comodità, però si può fare. Ci siamo serviti della funzione sinusoidale per generare le due onde e del principio di sovrapposizione per ricavare la loro somma punto per punto, cioè numero per numero. Alla fine abbiamo registrato il risultato sul disco rigido del computer. Potevamo scriverlo su un foglio di carta oppure scolpirlo su una lapide di marmo, non faceva nessuna differenza. In quest’ultimo caso, naturalmente, il risultato sarebbe stato di certo più duraturo, ma assai più laborioso. L’importante è che quelle somme possono essere trasformate di nuovo nell’onda A+B. Avete capito?

E adesso viene il miracolo. Premo un bottone sullo schermo, aspetto che compaiano due nuovi grafici, e riattacco il discorso.

Questi grafici mostrano la cosiddetta analisi spettrale dell’onda A+B generata con il foglio di calcolo e salvata nel documento di testo. Nella prima figura si notano due pallini: ebbene, quei pallini sono l’onda A e l’onda B. Non ci credete? Aspettate.

Le ascisse dei pallini stanno fra di loro nel rapporto 1:2 mentre le loro ordinate stanno nel rapporto 4:1. Questo vuole dire che l’onda A aveva una ampiezza doppia rispetto a quella dell’onda B. Ma aveva anche una frequenza che era un quarto. E non è tutto.

Nella seconda figura i pallini sono disposti in uno strano grafico che si chiama grafico polare. Anche qui i pallini rappresentano le due onde primitive. Di quanti gradi sono scostati?

‒ 135 gradi – rispondono tutti, dopo aver riflettuto.

Benissimo. Ora torniamo al foglio di calcolo e riprendiamo l’onda A, l’onda B e l’onda A+B, solo che questa volta non lasciamo che i quattro parametri (A, B, F e φ) li scelga il computer, ma li scegliamo noi. E noi li scegliamo uguali a quelli che abbiamo ricavato da questi ultimi due grafici.

In un attimo, ecco ricomparire sullo schermo il grafico già visto.

‒ Che ve ne pare?

Non sono un uomo di fede, e ho una scarsissima propensione all’apostolato e al proselitismo, ma questo è proprio un miracolo, e ogni volta che lo esibisco agli studenti sento qualcosa ammorbidirsi dentro di me.

Non esito perciò a pronunciare parole ispirate e solenni per sottolineare il valore straordinario di ciò che hanno appena assistito. Novello Battista laico, spiano la strada a quel Jean Baptiste Joseph Fourier che per primo mostrò al mondo che il miracolo era possibile.

Sono state ricostruite, infatti, le caratteristiche primitive dell’onda A+B dopo che essa era stata ridotta a semplice poltiglia numerica. E ciò non è stato possibile soltanto perché, in fondo, l’onda A+B era la somma due sole onde; la cosa è possibile anche nel caso di dieci, cento o mille onde primitive.

Alla fine della mia perorazione molti studenti si dichiarano indignata per il fatto che non ci sia una via intitolata allo scienziato francese in ogni città del mondo.

‒ L’altra cosa importante – aggiungo – visto che siamo in tema di cose straordinarie, è che se invio l’onda A+B ad un video la posso rappresentare, cioè ottengo un grafico, mentre se la mando ad un altoparlante la posso ascoltare, cioè ottengo un suono. Dite se è poco.

‒ E che suono ha?

‒ Lo sentiremo nella prossima puntata.

la fisica. Alla puntata successiva mi presento con un altro programmino che fa le stesse cose del foglio di calcolo, ma in maniera più estesa, più ricca, più comoda. Ma soprattutto esso è in grado di mandare come promesso la funzione generata alla scheda audio del computer.

L’applicazione può sommare sette funzioni sinusoidali – delle quali è possibile controllare i tre parametri della funzione b: B, F e φ e inviarle continuamente alla scheda audio del computer, dimodoché se ne possa anche ascoltare il suono, oltre che vederne la forma. La figura mostra che l'applicazione è impostata per generare proprio l’onda A+B mostrata anche nel precedente grafico.

Ma questa volta l’onda produce un suono, cioè percuote i timpani studenteschi, determinando perciò un effetto sensibile e non solo una rappresentazione mentale. È davvero musica per le orecchie ascoltare questo suono, perché esso è stato progettato, costruito pezzo per pezzo e alla fine prodotto consapevolmente.

Non c’è molta differenza perciò, secondo me, tra il riuscire a cavare una nota chiara e pulita da uno strumento musicale e il generare un suono sintetico come questo: c’è la stessa intenzionalità e la stessa accortezza che fa la differenza fra la musica e il rumore. Questa, perciò, è davvero musica, anche se non è uscita da un conservatorio di musica, bensì da un laboratorio di fisica.

Musica acerba, s’intende; il generatore sintetico produce solo una insistente nota aspra e lugubre, come di tuba. Abbiamo lo strumento, ma non c’è ancora invenzione artistica.

Di invenzione tecnica, invece, figlia della scoperta scientifica, ce n’è invece quanta se ne vuole. Da questo momento in poi, difatti, posso inondarli con una ridda di esperimenti utili per esplorare tutte le possibilità del suono consapevole – intensità, altezza e timbro – variando a piacere i tre parametri delle sette sinusoidi disponibili.

‒ Questo è un suono puro a 1000 hertz – dichiaro mentre li assordo con un fischio insopportabile, e poi aggiungo – vedete: per ottenere un solo secondo di questo suono è necessario impacchettare 1000 fogli di calcolo dell’onda A e poi spararli uno dietro l’altro nell’altoparlante. Non vi sembra una cosa sorprendente?

La cosa li sorprende, e apprendono con meraviglia che il loro lettore mp3 deve digerire oltre quarantaquattromila numeri di una sterminata lista simile alla tabella mostrata in precedenza, per produrre un solo secondo di musica.

Apprendono che non esistono limiti fisici, almeno in linea di principio, alla possibilità di produrre suoni di qualsiasi genere, però devono accettare il fatto – che in parte sperimentano di persona – che esistono invece severi limiti fisiologici all’ascolto dei suoni e che quindi il mondo naturale è molto più silenzioso per gli umani di quanto esso sia nella realtà.

la musica. Qui cominciano gli scogli. Dico questo perché, passando alla fase tre della mia rappresentazione, comincio ad impiegare il generatore per svolgere qualche esperimento di psicoacustica, che è l’anticamera dell’esperienza musicale. Per esempio, dò una dimostrazione dello spettacolare fenomeno dei battimenti: imposto due sinusoidi a 200 hertz e a 201 hertz, per esempio, e avvio l’applicazione.

Ci incantiamo tutti di fronte allo spettacolo di un’onda sullo schermo che si stira e si appiattisce ritmicamente mentre l’altoparlante le fa eco emettendo una specie di respiro sonoro: uau-uau-uau…

‒ Uau! – commenta qualcuno.

‒ Del fenomeno dei battimenti abbiamo parlato la settimana scorsa… – ricorda il collega di teoria, anch’egli ipnotizzato da quell’indolente ansimare della sinusoide.

‒ Ah, era questa roba qui? Se sapevo stavo attento… – provoca un altro studente.

Il collega incassa la battuta con fare amabile.

Ma quando imposto i valori delle sinusoidi a 200 hertz e 300 hertz e faccio ascoltare alla classe la voce solenne di Sua Maestà l’Intervallo Musicale di Quinta Giusta la classe rimane a dir tanto freddina. Niente capriole sullo schermo. Niente respiro. Non osano dirlo, ma gli si legge in faccia:

‒ Tutto qui?

Anche Sua altezza Principesca l’Intervallo di Quarta non li esalta, come risulta prevedibile dopo la modesta accoglienza tributata alla Quinta. E neppure il patetico chiaroscuro sonoro della Terza Maggiore alternata alla Terza Minore produce un effetto emotivo apprezzabile. Un po’ me lo aspetto, e perciò tiro dritto con la spiegazione:

‒ Dunque, quando due suoni hanno delle frequenze il cui rapporto può essere espresso con piccoli numeri interi – 1:2, 2:3, 3:4, 4:5, 5:6 – e vengono emessi contemporaneamente essi producono un effetto gradito all’orecchio…

‒ Va bene anche 3:5? – mi interrompe qualcuno.

‒ No. 3:5 non va bene…

‒ E perché no?

Perché. Perché. Perché. Come faccio a spiegare il perché se non hanno gradito – non dico riconosciuto – né il 3:4, né il 4:5. Qualcuno addirittura confessa di trovare sgradevole anche la voce di Sua Maestà la Quinta, mentre più d’uno si riscalda ascoltando l’orripilante stridore prodotto da due suoni intonati a 990 hertz e 1000 hertz, che non hanno alcun diritto di cittadinanza musicale.

‒ E voi sareste esperti di musica? – domando con sarcasmo, e subito dopo mi mordo la lingua.

Sono esperti, in effetti, ma esperti consumatori di musica. Tocco con mano il fatto che il gusto musicale va educato per produrre un comune sentire, altrimenti deve cedere il passo alla più ruspante soggettività che viene socializzata tramite il conformismo consumistico. Ma come faccio a spiegarglielo?

‒ Ragazzi, il vostro gusto musicale andrebbe educato per produrre un comune sentire, altrimenti è inevitabile che esso ceda il passo alla più ruspante soggettività che viene socializzata tramite il conformismo consumistico. Mi sono spiegato?

Camilla B. mi ha capito, una volta. Ma sfido, suonava il pianoforte. Per lei è stata un’autentica rivelazione scoprire che la solennità della Quinta, la pienezza della Quarta, e il reciproco trascolorare delle due Terze rispondeva alla semplice combinazione di piccoli numeri naturali.

‒ Ragazzi, che cosa vi perdete…

Ma l’armonia, si sa, è una meta difficile da conquistare. Con la melodia, per fortuna, devo ammettere che le cose vanno un po’ meglio. Mi slancio a spiegare come si costruisce una scala musicale.

‒ Prima di tutto scegliamo arbitrariamente una frequenza; però, siccome non si può ricominciare tutte le volte daccapo, diciamo che 440 hertz è la frequenza che tutti al mondo, ormai, considerano come frequenza di riferimento. Ha anche un nome: si chiama La internazionale, ma noi chiameremo questa frequenza F. Ebbene, si può costruire una scala musicale impiegando questa formula:

dove n è la posizione della nota nella scala (0; 1; 2 e così via; ma possono essere impiegati anche valori negativi per ottenere le note più gravi) ed f è la frequenza da assegnare a quella nota.

‒ Ecco, per esempio, le frequenze di una scala di due ottave imperniata attorno al La internazionale. Chiaro?

numero esponente nota frequenza
- - hertz
-12 La 220,000
-11 La# 233,082
-10 Si 246,942
-9 Do 261,626
-8 Do# 277,183
-7 Re 293,665
-6 Re# 311,127
-5 Mi 329,628
-4 Fa 349,228
-3 Fa# 369,994
-2 Sol 391,995
-1 Sol# 415,305
0 La 440,000
1 La# 466,164
2 Si 493,883
3 Do 523,251
4 Do# 554,365
5 Re 587,330
6 Re# 622,254
7 Mi 659,255
8 Fa 698,456
9 Fa# 739,989
10 Sol 783,991
11 Sol# 830,609
12 La 880,000

No, non è chiaro. Non può essere chiaro. Come fa ad essere chiaro? In questa formula c’è molta fisiologia dell’apparato uditivo e tutta l’armonia e la melodia della musica occidentale, da Johann Sebastian Bach al Rock, passando per Arnold Schönberg.

Addirittura basta cambiare quel 12 in un numero a piacere – per esempio 6 oppure 15 – per ottenere un’esotica scala musicale, forse inadatta per le nostre orecchie umane, ma formalmente ineccepibile per chissà quali armonie e melodie extraterrestri.

Devo spiegare la formula con il massimo impegno possibile, devo mostrare che essa racchiude il principio per definire tutte le note di qualsiasi strumento musicale – voce umana compresa – sperando che ciò riesca a scalfire almeno un poco l’idea che la musica è anche ragione, ma non per questo deve essere noia.

Poi prendo il tema dell’Arte della fuga di Bach e glielo mostro.

Pochissimi sanno leggere la musica, però non è difficile dare un’idea rudimentale della notazione musicale quando la melodia è abbastanza semplice, come in questo caso.

Ad ogni nota può essere associata una frequenza che si ricava dalla scala musicale della tabella mostrata sopra; e anche una durata che è specificata nello spartito. In questo modo il frammento musicale può essere riscritto in un'altra tabella, inviato a uno dei tanti programmini scritti per l’occasione e ascoltato.

progressivo nota frequenza durata
- - hertz secondi
1 Re 293,665 1
2 La 440,000 1
3 Fa 349,228 1
4 Re 293,665 1
5 Do# 277,183 1
6 Re 293,665 0,5
7 Mi 329,628 0,5
8 Fa 349,228 1,25
9 Sol 391,995 0,25
10 Fa 349,228 0,25
11 Mi 329,628 0,25
12 Re 293,665 0,5

Il tema non produce sugli studenti l’emozione che vorrei. Non devo pensare che lavorando in fin di vita su quelle quattro battute Bach è riuscito scrivere 108 minuti di musica immortale.

Però almeno collegano la funzione alla scala, la scala allo spartito, lo spartito alla tabella e la tabella a quello che ascoltano. Finalmente intravvedono il legame tra matematica, fisica e musica. E questo è già tanto.

Questa lunga rappresentazione didattica non si è sempre svolta nel modo che ho appena descritto. In principio era un atto unico, poi è diventata di due atti, e infine si è allungata fino ad occupare tre giornate.

Le ragioni di questa dilatazione sono diverse. Prima di tutto – lo confesso – c’è il fatto che questo argomento mi appassiona intensamente. D’altra parte, credo che poche arti siano così intrecciate con la fisica e con la fisiologia come lo è la musica; per ogni nuovo esperimento che aggiungo alla lista di quelli già in programma altri dieci mi si affacciano alla mente, ragione per cui, alla fine, sei ore di lezione risultano appena sufficienti per sviluppare adeguatamente il discorso.

La seconda ragione sta proprio nell’anomalia di questa rappresentazione. Diversamente dal solito, infatti, quello che propongo non è un esperimento con un determinato scopo come trovare una costante o una legge. Non c’è quindi neanche un vero risultato. Ma non c’è neppure una descrizione, una raccolta dei dati, e una elaborazione nel significato ormai familiare che queste parole hanno assunto.

Gli studenti si trovano di fronte ad una massa sterminata di informazioni e di esperimenti – quantunque presentata in maniera sistematica – e devono cercare di selezionare da quella massa tre-quattro idee chiave, per svilupparle in un testo argomentativo. Ammetto di fare questa rappresentazione anche per saggiare la flessibilità degli studenti a svolgere compiti diversi da quelli abituali.

Perdersi è facile. Prendiamo il senoide, per esempio. È una variante fantasiosa della funzione sinusoidale che invece di spazzolare, come dovrebbe, una circonferenza, si mette a percorrere il perimetro del quadrato che circoscrive la disertata circonferenza.

La funzione ha un aspetto apparentemente ingenuo, ma quando si va a fare l'analisi armonica (mostrata nella parte inferiore dell'immagine) rivela un inatteso diluvio di onde primitive, da fare impallidire il semplice risultato già mostrato nel grafico dell'onda A+B.

Devo dire che questo esempio catalizza l’interesse degli studenti – lo faccio vedere apposta – però non è niente di più che una curiosità nell’economia del discorso. Esso non dovrebbe entrare nelle loro relazioni, perciò, ma purtroppo non è detto che ciò accada. È questo che intendo quando affermo che è facile perdersi nel dedalo dei tanti piccoli esperimenti stravaganti e suggestivi che propongo loro.

Per capire quanto è facile perdersi ho scritto prima di tutto la mia versione della relazione richiesta, imponendomi di usare solo le parole, senza ricorrere al conforto di qualche grafico o di qualche disegno, giusto per rendere il discorso più generale e più astratto.

Ho dovuto riconoscere che le difficoltà sono grandi. Non leggo in anticipo il mio testo, però, perché voglio vedere come se la cavano da soli. Lo leggo dopo la correzione, durante la quale mi lascio consigliare generosamente dalla moderazione, nutrendo in maniera speciale il foglietto delle topiche, visto che ho imparato a mie spese che cosa vuol dire mantenersi equidistanti dalla genericità e del particolarismo.

Succedono cose prevedibili e cose inaspettate. Gli studenti più deboli, in genere, tentano di applicare il collaudato schema di stesura in maniera acritica, con risultati disastrosi.

Alcuni radunano poche stitiche banalità, perché non sanno da che parte incominciare: sono le vittime di quella comunissima sindrome studentesca che induce a credere, senza alcun fondamento, che grazie alla memoria e ad una veglia notturna si possano ricostruire sei ore di lezione, fitte di parole e di esperimenti. Nel caso in questione questa sindrome colpisce con una virulenza fuori dal comune.

Altri si buttano a capofitto nell’internet o su qualche enciclopedia multimediale e si abbandonano sconsideratamente al copia-e-incolla senza accertarsi del fatto che io abbia almeno vagamente accennato a certi argomenti sui quali, a leggere i loro contributi, essi mostrano di saperne assai più di me.

‒ Divento vecchio – mi rammarico con qualcuno di loro, al momento della riconsegna della relazione – non mi ricordo proprio di aver detto le cose che hai scritto. Mi potreste rinfrescare la memoria?

Di fronte ad una manifestazione di stoltezza tanto evidente, non saprei dire chi fra i due resta più imbarazzato dell’altro.

Molti studenti, però, affrontano l’impresa con estrema serietà, consapevoli del grande impegno che necessita.

Interrogo di nuovo la mia base di dati per esaminare i voti che ho assegnato su questo argomento nei sette anni trascorsi. Mi restituisce un lista che contiene 153 elementi: il voto più alto è nove e mezzo; il voto più basso è due. Trovo in cima alla classifica i soliti studenti bravi e diligenti, ma anche qualche studente di norma meno brillante che è riuscito però a raggiungere una valutazione di eccellenza proprio là dove neppure lui, forse, avrebbe scommesso.

Alcuni dei bravi, invece, sono crollati miseramente su questa prova. Sono stati sopravanzati dalla difficoltà di affidarsi quasi esclusivamente alle parole per svolgere un discorso scientifico. Fino a quel momento, infatti, avevano sempre arginato la propria difficoltà a svolgere un discorso corretto e articolato eccellendo nella parte più strettamente matematica e tecnica del lavoro. Venendo però a mancare quasi de tutto quest’ultima parte si sono scontrati con la propria inadeguatezza ad usare le parole.

Ho parlato di inadeguatezza, ma forse avrei fatto meglio a dire spregio. Proprio così: si tratta di una inadeguatezza che nasce probabilmente da uno spregio per le parole, per i discorsi, considerati poco più che chiacchiere superflue.

Ho notato in molti bravi studenti, versati nelle scienze, una ostinata sufficienza nei confronti delle parole scritte, ed una altrettanto caparbia convinzione nel fatto che le formule, i calcoli ed i numeri parlino da sé, senza la necessità di una mediazione verbale.

Per questi studenti la stesura di un testo scientifico, quindi, è una inutile sfacchinata alla quale si sottomettono per diligenza ma della quale vorrebbero fare volentieri a meno. Sono studenti difficili, perché spesso sono anche tra i più bravi.

Aiutare uno studente mediocre a migliorare la propria conoscenza scientifica e contemporaneamente la propria attitudine ad esprimerla è un lavoro faticoso, ma non è una cosa tanto difficile per un insegnante che sa il fatto suo; ma convincere uno studente intuitivo e brillante che buttare giù quattro formule corrette è una cosa che vale poco o niente, se quella felice sortita non viene adeguatamente accompagnata da una spiegazione verbale, spesso appare un’impresa disperata, perché urta contro un ostacolo pregiudiziale: il relativismo espressivo.

C’è una persuasione diffusa ‒ di sicuro non solo fra gli studenti ‒ che altri linguaggi, diversi dal linguaggio verbale, godano di una propria, compiuta autonomia espressiva: il linguaggio matematico, per esempio, il linguaggio visivo o lo stesso linguaggio musicale con il quale, in questi esperimenti appena descritti, provo ad emettere qualche balbettio.

Io credo che questa sia semplicemente una sciocchezza, tuttavia devo ammettere che si tratta di una sciocchezza che gode dappertutto di molto credito. Non posso affrontare in questo luogo un tale argomento, e forse non ne ho neppure le forze, ma vorrei solo accennare al fatto che della locuzione compiuta autonomia espressiva io critico solo l’aggettivo compiuta.

Del linguaggio matematico, infatti, non è solo indecidibile la coerenza interna, ma è anche discutibile la totale autonomia. Non si può scrivere un libro in linguaggio matematico che parla del linguaggio verbale, mentre si può scrivere un libro in linguaggio verbale che parla del linguaggio matematico, senza scrivere una sola formula.

Non parliamo poi del sopravvalutato linguaggio visivo, che tende spesso a trascurare le piccole circonvoluzioni sopra la cintola e si rivolge particolarmente a quelle crasse che stanno sotto di essa.

Anche il linguaggio musicale cede spesso a questa tentazione, sebbene possieda una coerente espressività razionale che purtroppo, però, appaga soltanto sul piano formale e non sul piano del significato.

Il linguaggio verbale, insomma – cioè il linguaggio naturale – con la propria difettosa ed equivoca capacità espressiva resta l’unico vero strumento per parlare del mondo che ci circonda.

Incontro sempre molta difficoltà a convincere di ciò molti colleghi – che sono degli adulti – figuriamoci gli adolescenti, che per definizione sono ostinati come muli.

‒ Se non lo sai dire – insisto tenacemente – allora non lo sai.