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Primavera: la maturità

31. Ma quante relazioni ho corretto?

Ecco la risposta:

‒ 4279.

Non una di più, non una di meno.

Ma su questo argomento sono pronto a rispondere con grande precisione a molte altre domande, anche più difficili di questa. Per esempio:

‒ Quante relazioni ho corretto nel corso dell’anno scolastico 2002-2003?

‒ 612.

Questa domanda non era molto difficile, devo riconoscerlo; ma sentite quest’altra:

‒ A quanti studenti ho dato il voto sette e mezzo?

‒ 316.

E adesso qualcosa di veramente difficile:

‒ Quanti punti di consistenza (vedi criteri di valutazione) ho assegnato alla studentessa Chiara P. correggendo la sua relazione dell’esperimento Misure a senso svolto il 20 settembre 2002?

‒ 1,75.

Se devo essere sincero non avrei mai creduto nell’ottobre del 1999 – quando corressi la prima relazione – che oggi avrei potuto essere tanto preciso nel rispondere a queste domande.

Avevo concepito il foglio delle valutazioni come uno strumento utile per applicare rapidamente e senza errori i criteri di valutazione, ma non immaginavo di poter impiegarlo anche per altri scopi. Il fatto è che – correzione dopo correzione – quei fogli sono divenuti alquanto numerosi e hanno formato, alla fine, un bel blocco. A ciò bisogna aggiungere anche il fatto essenziale che i criteri di valutazione adottati in principio sono rimasti immutati nel corso degli anni, dimodoché i dati contenuti nei diversi fogli erano rigorosamente omogenei.

Mi è sembrato quasi inevitabile, perciò, trasformare tutti quei fogli sparsi in una archivio organico, ovvero creare una base di dati contenente molte informazioni su ciò che ho fatto in questi ultimi sette anni di lavoro.

Sette anni di lavoro didattico, in verità, sono abbastanza poca cosa in confronto alla durata media della carriera di un insegnante e soprattutto se si considera il gran numero di insegnanti in circolazione. La mia piccola base di dati, in altre parole, non ha alcun valore universale, però credo che sia utile per valutare oggettivamente i risultati di quella parte del mio lavoro di insegnante che ho attentamente progettato e sistematicamente messo in atto per un periodo abbastanza lungo da escludere esiti del tutto aleatori.

Le prime informazioni che ricavo dall’interrogazione della mia base di dati riguardano l’entità del lavoro svolto: l’intera attività ha coinvolto in varia misura 320 studenti di 42 classi che si sono applicati all’esecuzione di 257 esperimenti dei quali è stata chiesta loro una relazione scritta.

anno
scolastico
studenti
assenti
relazioni
attese
relazioni
consegnate
relazioni
non consegnate
% relazioni
non consegnate
1999-2000 66 704 635 69 9,5%
2000-2001 65 739 697 42 5,7%
2001-2002 60 654 632 22 3,4%
2002-2003 70 646 612 33 5,1%
2003-2004 33 526 511 15 2,9%
2004-2005 33 566 543 23 4,1%
2005-2006 71 711 649 62 8,7%
totale 398 4546 4279 181 5,9%

Più avanti metterò a confronto questi risultati con il tempo speso per ottenerli e farò anche qualche osservazione di carattere sociologico, sempre riferita al mio universo personale (Ma quanto lavora un prof?), ma qui mi interessa soprattutto il lato didattico della faccenda.

In media ho corretto poco più di seicento relazioni ogni anno (611 se vogliamo essere precisi), e siccome in tutti questi anni ho avuto sempre sei classi, posso dire di aver corretto annualmente circa un centinaio di relazioni per classe. In realtà questo numero dovrebbe essere un po’ più grande, ma bisogna tenere conto del fatto che c’è sempre qualche assente agli esperimenti. In questi casi io ho sempre applicato la regola ovvia secondo la quale chi non è presente all’esperimento non è tenuto a consegnare la relazione.

Meno ovvia, invece, è stata la decisione di quegli studenti che per negligenza hanno deciso di non consegnare la relazione, nonostante avessero partecipato all’esperimento. Gli studenti assenti non rappresentano un caso significativo, sebbene riguardo alla buonafede di molti di loro non metterei la mano sul fuoco, mentre i negligenti meritano qualche osservazione.

La tabella mostra il loro numero, registrato anno per anno, e soprattutto la loro percentuale sul totale degli studenti tenuti a presentare il lavoro richiesto. Il dato generale è che quasi 6 studenti ogni 100, in media, hanno deciso di non mettersi al lavoro dopo aver svolto un esperimento. Questo vuol dire che c’è stato uno studente su diciassette – cioè quasi uno studente per classe, se teniamo conto anche degli assenti – il quale, ogni benedetta volta che c’era da fare una relazione, ha fatto finta di niente. Detta così, questa conclusione mi fa ribollire il sangue nelle vene, al pensiero di quello studente fannullone che se ne andava a spasso quando i suoi compagni di classe dedicavano molte ore, chiusi in casa, a sudare sulle carte.

Lo scansafatiche peripatetico, però, è solo una comoda astrazione statistica. In realtà gli studenti sfaticati sono stati sicuramente diversi nel corso degli anni. Per questa ragione ho voluto guardare alla mia base di dati in modo un po’ più attento, per cercare qualche ragione alla mancata consegna che non sia semplicemente la negligenza.

N relazioni non consegnate anno scolastico classe
1 7 2000-2001 5B
2 7 2005-2006 1A
3 6 1999-2000 3A
4 6 2002-2003 1A
5 6 2005-2006 3B
6 5 1999-2000 2A
7 5 1999-2000 4A
8 5 1999-2000 4B
9 5 2000-2001 4A
10 5 2001-2002 3B
11 5 2002-2003 1A
12 5 2002-2003 1A
13 5 2004-2005 3A
14 5 2005-2006 1A
15 5 2005-2006 3B

Questa tabella contiene la lista nera degli esperimenti per i quali ho dovuto registrare un numero di relazioni non consegnate superiore quattro. Ho messo graficamente in evidenza il fatto che cinque dei quindici esperimenti della lista (cioè un terzo) sono stati svolti in una prima classe, e che quattro di essi (di nuovo quasi un terzo) sono stati svolti nell’anno scolastico 1999-2000.

Ma io ho sempre avuto ogni anno solo una prima classe su sei, mentre l’anno scolastico 1999-2000 costituisce soltanto un settimo del periodo considerato. Si tratta dunque di due diverse anomalie nella distribuzione delle inadempienze che secondo me, tuttavia, hanno la stessa spiegazione.

Credo che in entrambi i casi io abbia scontato un difetto di evidenza riguardo ai miei criteri di valutazione: nel primo caso perché gli studenti delle prime classi non sanno ancora con che razza di inflessibile carogna hanno a che fare; nel secondo caso perché non erano solo i primini a ignorarlo: non lo sapeva proprio nessuno.

Siccome però la qualifica di carogna mi lusinga solo fino a un certo punto preferisco capovolgere il discorso e affermare che la chiarezza e la stabilità del criterio di valutazione produce un evidente effetto moralizzatore. Fin dal primo giorno di scuola, infatti, dichiaro esplicitamente che una relazione non consegnata equivale al voto uno, e questo solo perché il voto zero – chissà perché? – non si può dare. Lo dichiaro e poi soprattutto tengo fede alla dichiarazione. Naturalmente, quando tiro la somma dei risultati, mi preoccupo di calcolare una media ragionata dei voti, la quale non assegna a quel voto infimo il suo peso naturale, perché ciò sarebbe iniquo. Però trovo equo che una relazione non consegnata pregiudichi parzialmente l’esito di un quadrimestre, e che due relazioni non consegnate, poi, lo compromettano quasi per certo.

Potrei trovare altri riscontri nella mia piccola base di dati per suffragare l’idea che la chiarezza e la certezza della norma rendono rapidamente corretto il comportamento degli studenti, però sarebbe necessario entrare in troppi dettagli e la cosa si farebbe forse un po’ troppo noiosa. Credo che ciò che ho riportato possa risultare sufficiente.

Quello che non è affatto sufficiente, invece, è che gli studenti consegnino la propria relazione affinché prendano almeno sei. Come ho già detto, infatti, i voti vanno da uno a dieci, secondo le superiori disposizioni ministeriali, e dunque è possibile che uno studente prenda uno anche dopo aver consegnato la sua brava relazione di laboratorio.

Non è frequente, però può succedere. Sorvolo sul lato grottesco di questa evenienza, che emerge solo dopo che il tempo ne ha ridimensionato quello tragico. In casi rari (14 in tutto) ho dovuto perfino arrotondare per eccesso il punteggio per adeguarlo al voto minimo. In uno spiacevole caso, davvero paradossale, il concorso degli errori e del ritardo aveva determinato addirittura un punteggio pari a -1.

Questi, però, non sono che casi limite. La norma, infatti, prevede che per le loro fatiche di rielaborazione scritta degli esperimenti gli studenti prendano almeno quattro, e poi cinque e poi sei, e fortunatamente anche sette, otto e nove. Allora mi sono chiesto due cose, guardando retrospettivamente a tutto il lavoro di correzione:

1. che voto ho dato in media ai miei studenti?

2. come ho distribuito tutti gli altri voti?

e in definitiva:

3. il mio criterio di valutazione è buono?

La risposta alla prima domanda è in questa tabella che dice sostanzialmente questo: su un totale di oltre quattromila relazioni corrette il voto medio assegnato è stato sei: un risultato piuttosto severo – se vogliamo – ma pur sempre sufficiente.

anno scolastico media dei punteggi media dei voti
1999-2000 5,83 5,75
2000-2001 5,95 6,00
2001-2002 6,03 6,06
2002-2003 5,89 5,97
2003-2004 5,96 6,04
2004-2005 6,04 6,12
2005-2006 5,89 5,95
voto medio 5,94 5,98
incertezza assoluta 0,08 0,12
incertezza relativa 1,3% 1,9%

Un dato che mi sembra interessante, comunque, è la modestissima oscillazione di questo valore nel corso degli anni, come testimonia l’entità dell’incertezza relativa. Per sette anni, insomma, ho assegnato il voto medio sei con una incertezza relativa inferiore al 2%. Nonostante la varietà delle condizioni operative, dunque, che ha compreso esperimenti banali ed esperimenti complessi in tutte le classi del ciclo liceale, il voto medio è rimasto stabilmente ancorato al minimo indispensabile. In realtà io ho ottenuto questo risultato senza una decisione a priori, bensì lasciandomi guidare semplicemente e scrupolosamente dai criteri di valutazione adottati, il che mi sembra un buon indizio della sua qualità.

La tabella, inoltre, riporta distintamente i valori dei punteggi e dei voti. Come si può notare, i primi sono sempre leggermente inferiori ai secondi, perché ho sempre arrotondato per eccesso i punteggi per ricavare i voti: un esercizio di generosità molto apprezzato dagli studenti.

Fa eccezione a questa regola solo il primo anno, ma anche questa anomalia si spiega abbastanza facilmente. Il punteggio si trasforma automaticamente in voto – col beneficio dell’arrotondamento per eccesso – di norma. Però alle volte ci sono le eccezioni, e solitamente le eccezioni sono dovute alla deprecabile pratica studentesca della copia.

‒ Il punteggio è 6,75… – dichiaro mentre lo studente già assapora il rituale arrotondamento – …ma il voto è tre e mezzo, perché questa relazione è una copia conforme di quella di un certo compagno che tu ben conosci; il quale, sia che abbia dato, sia che abbia preso, condivide con te metà dello stesso punteggio, dal momento che giudico sconsiderate entrambe le azioni.

Questo breve sceneggiata, della quale rimando il seguito a qualche pagina più avanti (Copiare con la mente, non copiare con la mano), si è ripetuta spesso, soprattutto nel corso del primo anno. Non so veramente dove ho trovato il coraggio, tutte le volte, per manifestare questa inflessibile durezza, ma nessuno studente dopo questa partaccia mi ha tenuto il muso per più di una settimana, segno che la durezza paga, quando è ragionevole e soprattutto quando non guarda in faccia a nessuno.

Ma la sufficienza media, da sola, non basta per affermare che i voti sono stati distribuiti con severa equità, e qui vengo alla seconda domanda che mi sono posto per esaminare la qualità del mio criterio di valutazione.

Nel corso del mio lavoro non sono stato di sicuro un professor Manicalarga, perché altrimenti avrei dato in media un voto più alto di sei; e non sono stato nemmeno il professor Polsino, perché altrimenti avrei dato in voto minore di sei.

Mi spiacerebbe, però, essere stato il professor Mezzamanica, ovvero quel genere di professore che assegna solo voti tiepidi, vacilla all’idea di appioppare un due a uno studente asino, ma nel contempo non concepisce valutazioni a due cifre. Nel primo caso, infatti, egli trova umiliante per lo studente assegnare un voto così basso; nel secondo caso io trovo che forse egli considera umiliante per sé ammettere di avere di fronte uno studente migliore di quello che è stato lui. Chissà. In ogni modo, resta il fatto che il voto non si assegna allo studente, bensì al suo lavoro, anche se ammetto di avere appena designato un discente dal profitto molto scarso con un epiteto un po’ equivoco, ancorché tanto liberatorio.

Nel corso della mia carriera di insegnante ho incrociato numerosi colleghi che cadono in questa penosa e dannosa confusione, ma ho sempre incontrato una grande difficoltà a convincerli che sbagliano.

Insomma: mi rassegnerei più volentieri all’idea di essere Manicalarga oppure Polsino, piuttosto che dover riconoscere di essere il professor Mezzamanica. Mi piacerebbe però esibire qualche sostegno oggettivo a questo anelito e credo di averlo trovato nel seguente grafico.

Esso mostra come ho assegnato quattromila e passa voti di profitto nel corso di sette anni di attività valutativa. In controluce ho anche riportato una curva di una distribuzione normale, non perché creda ciecamente nella statistica, ma perché avere un riferimento fa sempre comodo.

Il grafico è centrato sul valore sei, che risulta anche quello più frequente, come era prevedibile, visto il valore già mostrato della media generale. Noto che le coppie simmetriche (cinque-sette, quattro-otto, ecc.) registrano valori abbastanza simili e rapidamente decrescenti.

coppia simmetrica occorrenze scarto percentuale
5½ – 6½ 454 – 586 +29%
5 – 7 466 – 512 +10%
4½ – 7½ 294 – 316 +7%
4 – 8 251 – 214 -17%
3½ – 8½ 124 – 125 +1%
3 – 9 89 – 86 -3%
2½ – 9½ 38 – 30 -27%
2 – 10 24 – 20 -20%

Resta isolato il voto uno, invece, poiché l’istogramma è centrato sul sei, e perciò questo voto dovrebbe fare coppia impossibile con il voto undici. Esso acquista dunque – probabilmente in modo involontario – il significato di valutazione fuori dal limite, il che rende effettivamente inutile il voto zero.

La coppia più sbilanciata è quella che vede associati il cinque e mezzo e il sei e mezzo; per questa coppia, infatti, ho registrato uno scarto percentuale del 29%. Tutte le altre coppie, invece, sono molto più bilanciate, e confesso che ciò appaga il mio desiderio di simmetria, che altro non è, credo, che il riflesso della mia volontà di distribuire i voti nella maniera più ampia possibile.

Se guardo al grafico nel suo insieme, inoltre, noto che l’istogramma appare imbrigliato in maniera abbastanza soddisfacente nella migliore curva di Gauss compatibile con i voti assegnati. Rinuncio a quantificare l’entità di tale imbrigliamento e mi accontento della valutazione qualitativa.

In realtà confesso che non saprei dire perché se assegno cento volte il voto cinque, dovrei assegnare altrettante volte il voto sette e così via. Temo che non esista – e non avrebbe senso istituire – una simile legge del contrappasso. Difatti io non ho mai pensato, neanche lontanamente, a una norma del genere tutte le volte che ho scritto con la penna rossa cinque oppure sette sopra una relazione appena corretta.

Nella stragrande maggioranza dei casi ho seguito semplicemente alla lettera i criteri di valutazione che mi sono sembrati ragionevoli in una lontana estate del 1999 e sul quale non sono mai più ritornato. E questo e tutto.