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Primavera: la maturità

36. Copiare con la mente, non copiare con la mano

Lo studio è il dovere fondamentale degli studenti, ma l’attività alla quale essi si applicano con maggiore impegno è la copia. Dicendo questo non voglio assolutamente mettere in cattiva luce la parte più importante della società della scuola, parlo solo della mia esperienza quotidiana. Penso che non esista al mondo un solo insegnante che durante una verifica in classe non abbia pronunciato, almeno una volta, una frase del tipo:

‒ Voi due: zitti o vi separo.

Forse qualche docente di italiano, dopo aver assegnato una traccia del tipo “La musica Rock: esperienze ed opinioni” ha potuto disinteressarsi del problema, ma i suoi colleghi delle altre materie non sono così favoriti dalle circostanze.

A dire il vero, una sbirciata sul foglio del compagno, una parola sussurrata al momento giusto, un biglietto che circola furtivo, una mano tatuata fino all’inverosimile di caratteri microscopici non hanno mai costituito una seria minaccia per l’esito della verifica, e soprattutto non hanno mai trasformato uno studente asino in una promessa per il Nobel. Tuttavia, siccome lo studente copione non ha alcuna ambizione di farsi incoronare indegnamente dall’Accademia delle scienze di Svezia, ma si accontenta di fare fesso il professore, e difficilmente esercita la propria attività di copia con moderazione, è prudente che quest’ultimo opponga almeno qualche debole sforzo per difendere la propria reputazione.

Le armi sono ben note:

1. verifiche in duplice o triplice versione, spesso corredate da madornali errori dovuti alle insidie del taglia e incolla al computer;

2. disposizione stravagante dei banchi;

3. un’occhiuta sorveglianza, almeno per i primi quindici minuti della prova.

Confesso di aver spesso guardato con una certa superiorità a questi accorgimenti ai quali miei colleghi di teoria erano costretti a ricorrere per accertarsi del fatto che, nelle tre settimane appena trascorse, non avevano parlato del tutto invano alla classe. La ragione del mio distacco dovrebbe apparire evidente: io non temevo l’esercito dei duplicanti per la semplice ragione che non facevo verifiche e quindi non avevo nulla di che preoccuparmi per i loro assalti.

Ma la mia promozione da scudiero a cavaliere didattico ha comportato anche per me la necessità di confrontarmi contro col problema della copia studentesca.

Ogni professore di qualche esperienza – derivante prima di tutto dal fatto di essere stato studente egli stesso – sa benissimo quali inesauribili tesori di impegno e di sagacia sa profondere il discente pur di sottrarsi all’onorevole compito di studiare al fine di andare preparato alla verifica. Tuttavia, come ho appena detto, copiare a scuola non è una cosa facilissima. Prima di tutto il docente recalcitra all’idea di farsi raggirare e adotta perciò le proprie contromisure, talvolta davvero efficaci. E poi, ammesso pure di non doversela vedere proprio con un docente credulone, rimane il fatto accertato che copiare è prima di tutto un’arte – l’arte di sfruttare la dritta – e che in questa particolare arte non sono numerose le eccellenze studentesche.

Ammetto di dire una cosa un po’ cinica, tuttavia penso sinceramente che lo studente che quasi non ha aperto il libro ma che riesce a copiare scaltramente a scuola grazie alle dritte carpite ai compagni, annodando al volo i fili pendenti del proprio tessuto cognitivo, merita senz’altro la sufficienza. L’azione è moralmente riprovevole, lo riconosco, ma molto efficace sul piano operativo. Il fatto è che di studenti capaci di tali azioni ce ne sono davvero pochi, e non so dire se questo, in definitiva, è un bene o un male.

Ma copiare a casa è tutta un’altra cosa, per di più dopo che gli studenti hanno assistito ad una epifania in classe di ciò che dovranno faticosamente ricostruire con il proprio lavoro domestico. È molto, molto più facile. Adesso sono i colleghi di teoria che sogghignano quando mi lamento per le relazioni copiate.

Mi resi rapidamente conto che il sistema che avevo ideato per insegnare agli studenti come raccontare un esperimento scientifico prestava il fianco a qualche inconveniente. Naturalmente avevo previsto questa difficoltà, ma tutte le volte che consegno in classe una relazione fatta e finita per la lettura collettiva e vedo qualcuno che si slancia in una forsennata attività di duplicazione resto sempre un po perplesso.

‒ Copiate con la mente, non copiate con la mano – raccomando allora paternamente.

Però si tratta di una perplessità molto passeggera, perché dopo sette anni di attività didattica svolta presentando agli studenti il mio lavoro ‒ in dosi progressivamente decrescenti ‒ prima di pretendere il loro, posso dire di considerarmi abbastanza soddisfatto dei risultati ottenuti, oltre che moralmente a posto per non essermi sottratto a un dovere di coerenza.

I guai cominciano a casa. In classe è abbastanza facile convincere uno studente a non copiare la relazione che ha sotto il naso, ma a seguirne piuttosto la lettura collettiva prendendo un bel poco di appunti. Ma non è altrettanto facile convincerlo a non copiare a casa, per la evidente ragione che a casa può fare quello che gli pare, per esempio;

1. tempestare di telefonate i compagni più bravi;

2. fare in comune quella che dovrebbe essere un’attività strettamente personale;

3. saccheggiare l’internet;

4. mille altre furberie che probabilmente ignoro.

Alcune di queste furberie, però, sono riuscito a smascherarle e le sottopongo alla curiosità del lettore per mettere nella dovuta evidenza la sagacia, la fantasia ma spesso semplicemente la disperazione del popolo studentesco che mostra talvolta un panorama di miserie intellettuali alle quali bisognerebbe riuscire sempre ad avvicinarsi con fermezza ma anche con umanità.

Lo studente Gabriele S. una volta mi consegnò una relazione che mi fece impazzire per una buona mezzora prima di venire a capo di quel lavoro. Non riuscivo a capire da dove venissero tutti i dati raccolti che egli aveva poi diligentemente elaborato. In un primo tempo pensai che avesse impiegato – per errore o per astuzia – i dati raccolti da uno degli altri gruppi di lavoro. L’esperimento, infatti, viene svolto spesso in cinque o sei gruppi, e in realtà si tratta di cinque o sei esperimenti paralleli, che danno luogo a una raccolta di dati diversi e che perciò conducono poi a dei risultati spesso molto differenti.

Per questo motivo, dopo l’esperimento, io pretendo sempre da un responsabile del gruppo la consegna di una copia ufficiale dei dati raccolti da quel gruppo, e poi conduco la mia personale elaborazione su quei dati confrontandola con quella svolta dagli studenti. Per ogni controversia – come si dice nel linguaggio burocratico – fa fede la copia ufficiale.

Ma i dati di Gabriele non corrispondevano a quelli di nessuna delle copie ufficiali. Non sapevo che cosa fare, a parte cercare di resistere al desiderio di irritarmi senza contegno. Poi ebbi l’idea:

‒ E se Gabriele – mi chiesi – avesse usato i dati di un esperimento svolto in uno degli anni passati?

Non avrei mai potuto scrivere questo libro se non avessi conservato, fra l’altro, una copia di tutti i dati degli esperimenti svolti nel corso di questi sette anni, quindi si capisce che dovetti solo armarmi di una certa pazienza e andare a spulciare i fogli di calcolo degli anni passati per verificare il sospetto. Così trovai la prova del misfatto.

Da quel momento, la prima le volte che smaschero qualche copiatore ho preso l’abitudine di rivolgere alla classe questa sinistra allocuzione:

‒ Cari ragazzi, credetemi, io non ho mai pensato, neppure per un solo istante, di essere il famoso professor Amenonlasifà. Però vi prego anche di considerare seriamente che non sono neppure il povero professor Bevilatutta. Voi fate pure un cattivo gioco, se volete, però tenete presente che se me ne accorgo non ve lo perdono.

Il caso dello studente Matteo A. – se possibile – fu ancora più insidioso. Egli mi consegnò una relazione assai ben fatta, ma purtroppo la descrizione richiamava senza possibilità di equivoco quella della relazione consegnata da un bravo compagno del suo gruppo di lavoro. Anche l’elaborazione dei dati, era del tutto identica tranne per il fatto che il risultato finale, ovvero quel numerino che costituiva il distillato di tutto quel cospicuo lavoro elaborativo, era diverso. Era solo un po’ diverso – una questione di decimali – il che lasciava pensare a qualche veniale leggerezza di approssimazione, ma soprattutto induceva a credere che l’elaborazione fosse stata svolta in maniera autonoma.

È ben difficile, infatti, che una laboriosa fatica di calcolo, svolta da due studenti in maniera indipendente, conduca allo stesso identico risultato. Mi stavo convincendo del fatto che Matteo, insomma, aveva scopiazzato la descrizione dell’esperimento, ma poi aveva condotto l’elaborazione in perfetta autonomia: una cosa grave, ma non tragica.

Venni però incuriosito dal fatto che il sospettabile risultato era stato riscritto sulla macchia bianca prodotta da una penna correttrice. Si trattava di un caso? Matteo era stato colto da uno scrupolo e aveva rifatto tutti i calcoli con più attenzione? Mi sforzai a lungo per decifrare ciò che la macchia nascondeva.

Da un lato provavo un po’ di vergogna per quell’azione ignobile che stavo compiendo, ma dall’altro ero fermamente deciso a non passare per scemo. Non senza fatica, ma con certezza assoluta, scoprii sotto la macchia bianca lo stesso, identico risultato al quale era giunto il compagno da cui aveva copiato l’intera relazione. Punto, alla fine della colpevole trascrizione, da un lampo di autentica genialità egli aveva cancellato il risultato del compagno e lo aveva sostituito con un altro, leggermente diverso, per depistare i miei sospetti.

‒ Cari ragazzi, credetemi, io non ho mai pensato, neppure per un solo istante, di essere il famoso professor Amenonlasifà. Però vi prego anche di considerare seriamente…

Infine vorrei citare il caso dello studente Marco S. Marco è stato per cinque anni uno studente volonteroso, ma incontrava molte difficoltà nell’esprimersi, le quali discendevano direttamente dal travaglio con cui riusciva ad impadronirsi dei concetti. Per questa ragione i suoi testi erano in genere assai poveri e schematici.

Quando lessi la sua ultima relazione del corso, però, dedicata ad un esperimento sulla teoria della relatività ristretta ( Cose più grandi di noi), rimasi letteralmente di stucco, per la chiarezza e la facondia dell’esposizione. Era evidente che non si trattava di farina del suo sacco, però mi domandavo dove era andato a scovato una relazione completa di quell’esperimento. Ero più che altro curioso.

Entrai allora nell’internet, chiamai un motore di ricerca e digitai fra virgolette, nell’apposita casella, una delle frasi più ispirate della sedicente relazione di Marco. Tempo 0,2 secondi ed ecco apparire suo video il collegamento ad un documento che conteneva la relazione sospetta. Scaricai il documento, accesi la stampante, lo stampai, lo allegai alla sedicente relazione di Marco e passai a correggere la relazione successiva.

‒ Cari ragazzi, credetemi, io non ho mai pensato, neppure per un solo istante…

Di fronte alla deprecabile ma irriducibile attività studentesca della copia domestica della relazione ho escogitato due rimedi:

1. la mozione degli affetti;

2. una penalità esemplare.

La mozione degli affetti si basa sulla mia preventiva ed esplicita dichiarazione che copiare a casa, avendo a disposizione una settimana di tempo, è una attività talmente ripugnante che non dovrebbe essere presa neppure considerazione.

‒ Il mio credito di fiducia verso di voi – continuo nella mia filippica – è un bene prezioso, e non va sprecato con certe pratiche meschine che danneggiano sia il docente, sia lo studente.

Ho la presunzione di riuscire abbastanza convincente in queste mie nobili perorazioni, anzitutto perché sono molto sincero e quindi credo davvero nella cooperazione didattica. Tuttavia certe volte devo arrendermi all’evidenza del fatto che la mente è forte, ma la mano è debole.

In questi casi non mi resta che ricorrere al secondo rimedio. Quando mi imbatto in due relazioni identiche assegno ad entrambe le relazione un voto che è pari alla metà del punteggio che esse meritano oggettivamente.

Preferisco sorvolare sulla fatica che costa l’esercizio di questa pratica e sulla pena che essa produce sulla coscienza del docente, ma posso dire in tutta sincerità che gli studenti soffrono di più per l’ambiguità di certe penalizzazioni a cui vengono sottoposti alle volte che per la loro meritata durezza di certe altre.

Il provvedimento, però, può essere esemplare solo a condizione che la colpa sia patente e che la pena venga dichiarata in anticipo e nel modo più trasparente. Dopo circa ventiquattr’ore dall’assegnazione della penalità – durante le quali tutto sopporterei di sapere, tranne quello che rimugina lo studente che si è visto trasformare un punteggio pari a otto in un voto pari a quattro – l’animo studentesco si calma e si può tornare a lavorare con serenità.

Non è affatto facile, però, far ammettere allo studente anche la più palese delle violazioni. La mia esperienza mi ha insegnato che bisogna sempre passare attraverso tre distinte fasi:

1. la negazione sdegnata;

2. la timida ammissione;

3. l’autoaccusa.

Durante la prima fase lo studente nega, nega e poi nega ancora; nega qualsiasi cosa; negherebbe seccato perfino di chiamarsi come si chiama. La faccenda alle volte si colora di tinte grottesche, ma in questa fase è assolutamente indispensabile non farsi vincere dall’impazienza – cosa assai difficile – e tenere duro fino alla seconda fase.

La quale apre un nuovo e ben diverso orizzonte, dove alla stizza per l’insinuazione subita si sostituiscono le scuse più varie per la propria colpa.

Viene poi la fase dell’autoflagellazione, durante la quale lo studente copiatore implora il professore affinché colpisca lui, ma risparmi il compagno colpevole solo di benevolenza nei suoi confronti.

Se si riesce a resistere a questo triplice assalto allora si può procedere spassionatamente all’applicazione della penalità: prevista, annunciata, meritata.

In realtà sono stati abbastanza rari i casi in cui ho diviso a metà un voto fra due studenti: l’ho fatto solo quando mi sono trovato di fronte a due relazioni assolutamente identiche. Di solito, però, la situazione è più sfumata: c’è chi copia la descrizione, c’è chi copia l’elaborazione, c’è chi copia il grafico. In questi casi convoco gli studenti in odore di reciproca carità e chiedo loro di rendere conto di quello che hanno scritto nella relazione. Naturalmente ho l’accortezza di interrogare per primo quello che ritengo che abbia copiato il quale, perciò, incomincia a farfugliare scuse e sciocchezze finché non intervengo a stendere un penoso velo di silenzio sulle sue parole. Ma la penalità – un voto, due voti a seconda della gravità della copia – vale per entrambi. Siamo alla terza fase:

‒ Prof, va bene, ammetto di aver copiato; ma perché deve togliere due voti anche a lui?

‒ Perché lui ha intralciato il mio lavoro: ha cercato di impedire che io mi facessi un’idea precisa del tuo profitto. È una colpa anche più grave della copia.

‒ Prof…

Ho descritto questo tira e molla della copiatura quasi come una serie di macchiette e non potrebbe essere altrimenti, perché mi sono trovato spesso in situazioni buffe o patetiche, ma nessuno deve pensare che abbia troppa voglia di scherzare su questo argomento e che mi sia divertito a mettere gli studenti alla berlina. Al contrario, il mio rispetto verso di loro è sincero.

A questo proposito vorrei raccontare, in conclusione, l’episodio di Sara e di Lorenzo. Alla scadenza pattuita ricevo, fra le altre relazioni di un esperimento svolto, anche le loro. Purtroppo mi accorgo subito che, tranne alcune parti assolutamente marginali, le due relazioni sono praticamente identiche, ma la farina del discorso è tutta quanta del sacco di Sara. Come faccio a saperlo? Sara è la più brava della classe, Lorenzo ha la sufficienza abbondante solo in simpatia.

Restituisco perciò le relazioni corrette ai rispettivi estensori con un voto pari alla metà del punteggio meritato. Il voto è quattro. La ragazza incassa senza fiatare il giudizio; mi spiega, senza voler minimamente giustificarsi, che ha imprudentemente aderito alla richiesta del compagno di dare un’occhiata al suo lavoro e poi chiede di poter vedere la relazione presentata da Lorenzo.

‒ Ah, pero! – esclama guardando la copia conforme della propria relazione. E questo è tutto.

Giuro che mi sto commovendo, in questo preciso istante, ripensando a quella semplice e dignitosa esclamazione. Sara è stata una delle mie studentesse più brave. E non solo a fare le relazioni.