parolescritte
interroga:  scripta  ·  bsu  ·  civita

itinerario verbale


pensieri verbali


Primavera: la maturità

42. Ma quanto lavora un prof?

Da una decina d’anni a questa parte ho preso l’abitudine di annotare scrupolosamente la quantità di tempo che dedico al lavoro.

Quando ne incomincio uno nuovo, pertanto, preparo un foglio di calcolo vergine che riempio con diligenza mentre il lavoro procede. In seguito all’introduzione dell’ormai memorabile articolo 5, comma 1, lettera a, perciò, ho annotato sistematicamente e puntigliosamente tutto il tempo che dedicavo alla scuola, distinguendolo in base alla natura dell’impegno, secondo questa ripartizione che ho mantenuto inalterata nel corso degli anni:

1. didattica;

2. supporto alla didattica;

3. organi collegiali;

4. altre attività.

Questa abitudine potrà apparire maniacale e onerosa, ma in realtà non è così (almeno per quanto riguarda il secondo aggettivo).

Come ogni buona abitudine, di cui ci si persuade del valore, quando essa diventa un’abitudine non pesa più di tanto. Per quelle cattive, come tutti sanno, non c’è alcun bisogno di questo tirocinio, ma tutti sanno anche che questo è un altro discorso.

Non pensavo di impiegare il mio rendiconto per scopi pratici; ero semplicemente curioso di sapere quanto mi avrebbe assorbito la mia nuova attività di cavaliere, dopo che per tanti anni avevo fatto lo scudiero senza preoccuparmi del tempo che dedicavo a quel compito.

Ho raccolto una sintesi del mio impegno lavorativo nel corso dei sette anni nella tabella che segue, e proverò a fare qualche commento su di essa, senza pretendere di dire cose memorabili.

anno scolastico didattica % supporto didattica % organi collegiali % altre attività % totale
1999-2000 517 48,2 377 35,2 109 10,2 68 6,3 1071
2000-2001 481 55,4 253 29,1 94 10,8 42 4,8 869
2001-2002 513 56,8 265 29,4 81 9,0 44 4,9 902
2002-2003 482 51,1 303 32,2 82 8,7 75 8,0 942
2003-2004 487 49,1 385 38,8 75 7,5 45 4,6 993
2004-2005 502 46,3 422 38,9 94 8,7 67 6,1 1084
2005-2006 498 47,8 444 42,7 69 6,6 30 2,9 1041
totale 3479 2449 603 370 6902
media 497 50,4 350 35,5 86 8,7 53 5,4 986

Anzitutto devo dire che – tabella o non tabella – la mia sensazione soggettiva è di aver lavorato tanto.

Questa sensazione è confortata dal parere analogo di molti valenti colleghi, tutti provati dalla fatica quotidiana di entrare in un’aula scolastica. Aggiungo perciò che quegli stessi valenti colleghi restano feriti nella propria coscenziosità quando sentono circolare il luogo comune secondo il quale i professori lavorano poco perché godono di un privilegio orario rispetto ad altre categorie professionali. Mi domando perciò se la sensazione soggettiva di impegno e di fatica provata da me e da molti colleghi, può ricevere almeno un barlume di conferma oggettiva, sul piano materiale del tempo, dall’esame della mia modesta tabella.

Dalla tabella sembra emergere in primo luogo una certa stabilità nell’arco del settennio, sia riguardo all’entità del numero di ore impegnate, sia riguardo alla loro distribuzione.

Ogni anno, in media, ho speso quasi mille ore della mia vita per istruire le giovani generazioni, ma di questo dirò meglio più avanti. Si notano delle variazioni, ma non mi sembrano molto importanti. Esse sono illustrate nel grafico che segue, dove si nota una certa oscillazione nel numero di ore dedicate espressamente all’attività didattica. Il numero di queste ore, però, è legato al calendario scolastico e quindi rappresenta una componente rigida nella composizione del mio impegno lavorativo.

Più interessante, invece, può risultare il contributo della componente destinata al supporto all’attività didattica. All’inizio, infatti, essa appare abbastanza ingente, ma poi si riduce negli anni successivi, forse perché ho sfruttato in questo periodo il lavoro svolto nell’anno di avvio di questa esperienza.

Dall’anno scolastico 2002-2003, tuttavia, questa componente incomincia a crescere, nonostante il leggero calo dell’attività didattica, e io interpreto questa tendenza come un miglioramento della qualità del mio servizio prestato alla scuola.

Delle componenti destinate agli organi collegiali e alle altre attività non c’è molto da dire, credo, tranne che esse si mantengono relativamente stabili nell’arco di sette anni, pur considerando la leggera flessione relativa agli organi collegiali.

Se si ammette la sostanziale stabilità temporale nella distribuzione del mio impegno di lavoro nelle varie componenti, allora si può cercare di ricavarne un’immagine unitaria, registrando la media di queste componenti, cosa che è mostrata nel grafico seguente.

Nel grafico appare evidente che ho dedicato poco più della metà del mio lavoro scolastico a fare il professore nel senso più ovvio del termine, vale a dire chiuso in laboratorio oppure in classe a lavorare con gli studenti.

Un terzo del tempo mi è servito per preparare le lezioni e per correggere le relazioni. Il resto delle ore se ne è andato in incombenze istituzionali (riunioni, collegi, scrutini) e in un piccolo pacchetto di attività difficilmente classificabili oppure molto specifiche.

Per esempio, le ore necessarie per realizzare l’applicazione che simula il modello cinetico dei gas sono finite nella fetta di ore denominata altre attività.

In genere, chi ritiene che i professori non lavorino molto pensa soprattutto alle ore che essi trascorrono in classe, ciò che in termini burocratici viene definito l’orario di cattedra. Non si può dargli torto, d’altra parte: il medico deve stare in ospedale, l’ingegnere sul cantiere, il professore nella classe.

Nessun professionista, però, passa tutto il proprio tempo di lavoro nel luogo dove lo vorrebbe l’immaginario collettivo, questo è evidente; infatti, una parte del tempo che essi dedicano al lavoro è destinata ad attività di servizio e di supporto. Nel mio caso specifico, come ho mostrato, queste attività sono state circa la metà del tempo che ho dedicato alla classe in senso stretto. Ciò significa che se qualcuno pensa che i professori non lavorino molto, potrebbe avere ragione, però, secondo me, prima di sostenerlo dovrebbe fare questa riflessione: dovrebbe pensare a un professore di cui ha stima, uno di quelli a cui affiderebbe volentieri i propri figli, dovrebbe cercare di immaginarsi quanto tempo dedica ad istruire gli studenti, dovrebbe moltiplicare quel tempo per due, e poi tornare a domandarsi se quel professore non lavora molto. Se dopo la riflessione la risposta è ancora affermativa, allora la lettura di quello che segue potrebbe indurlo a qualche riflessione supplementare, prima del giudizio finale.

Forse ho dato l’impressione di stare un po’ sulla difensiva riguardo a questo argomento, ma non è così. A me interessa davvero sapere se lavoro tanto o se lavoro poco, per una importante questione etica. Io credo infatti che una società avanzata e civile dovrebbe chiedere moltissimo ai professionisti impegnati nei settori della Sicurezza, della Salute e della Scuola. Essa dovrebbe riconoscere generosamente il loro impegno cruciale e circondarli anche di un’affettuosa gratitudine. Questi due aspetti sono collegati, naturalmente, però io trovo che sia giusto considerarli distintamente, almeno in linea di principio.

Tornando a me, perciò, vorrei sapere se quando rientro a casa annientato da sei ore di lezione e mi aspettano tre pacchi di relazioni da correggere devo considerarmi comunque un privilegiato; oppure vorrei sapere se a luglio, quando la città ferve ancora di un’attività dalla quale io ho già preso le distanze, posso evitare di sentirmi in colpa.

Come ho detto, la questione coinvolge sia l’impegno sia il riconoscimento che sono DUE aspetti distinti, sebbene collegati. Per affrontarla con un minimo di oggettività, quindi, devo distinguere due passi nel mio ragionamento:

1. prima di tutto devo valutare qual è la frazione quotidiana di vita che ho dedicato al lavoro scolastico in questi ultimi sette anni;

2. in secondo luogo dovrei mettere questa frazione in rapporto con il compenso che la scuola mi ha riconosciuto, cercando di inquadrare quest’ultimo dato nel panorama sociale in cui ho svolto il mio lavoro.

Il primo passo del ragionamento ha bisogno di qualche osservazione preliminare. Come si può notare dalla tabella, nel corso dei sette anni io ho tenuto 3479 ore di lezione.

Ma le lezioni vere e proprie, in realtà, sono state 4175 per la ragione che nel mio istituto – come in molti altre scuole con orari settimanali assai nutriti – l’ora di lezione è lunga solo 50 minuti. Ho mantenuto perciò il numero di ore effettivo – intendo ore di sessanta minuti – per evidenti ragioni di omogeneità dei dati.

A questo punto, però, sorge un’altra spinosa questione: sessanta minuti di ufficio valgono come sessanta minuti davanti a venticinque studenti? Nessuno si azzarderebbe a sostenerlo. E se qualcuno lo facesse sarebbe uno stolto, oppure un analfabeta, che non ha mai passato un solo giorno a scuola.

Casomai potrei accettare di confrontare i miei sessanta minuti con quelli dell’impiegato postale che sta allo sportello, e sopporta per diverse ore le impazienze di tanti pensionati che pur non avendo nulla da fare si lamentano di perdere tempo non appena l’impiegato si interrompe un istante per soffiarsi il naso.

Per incassare i versamenti postali non ci vuole troppa scienza, però il lavoro col pubblico è sempre molto più faticoso di quello senza contatti, e fra tutti i lavori col pubblico quello dell’insegnante è sicuramente fra i più gravosi. Mi verrebbe voglia, perciò, di moltiplicare quelle 3479 ore per un coefficiente di stress. Ma se lo facessi finirei in un ginepraio di valutazioni poco oggettive. Meglio attenersi perciò al numero delle ore di lezione così com’è, cercando di soppesare questo fatto al momento di tirare le somme.

Detto questo, posso procedere a fare qualche calcolo. Anzitutto assumo che un anno abbia esattamente 52 settimane. Di questo numero di settimane io ne ho sempre lavorate 44. Voglio dire, in altre parole, che dal totale di 52 settimane devo togliere 4 settimane di ferie lavorative e 4 settimane di vacanza. Quest’ultimo termine va inteso proprio nel significato letterale di assenza di lezioni per mancanza della materia prima da lavorare la quale, come è noto, intorno alla metà di giugno abbandona i banchi di scuola per farvi malvolentieri ritorno verso la metà di settembre.

Formalmente le ferie di un professore ammontano a 4 settimane – come per tutti gli altri lavoratori dipendenti – ma nella sostanza intorno alla fine di giugno cessa qualsiasi attività scolastica e comincia la vacanza. È vero che in linea di principio il docente potrebbe essere richiamato a scuola nei giorni non espressamente destinati alle ferie, ove sorgessero straordinarie ragioni di servizio, ma alzi la mano quel professore a cui è capitato un fatto del genere almeno una volta.

A me, per esempio, quando ero ancora un povero scudiero. Venni ruvidamente chiamato al telefono verso i primi di luglio, quando avevo già il motore acceso per partire alla volta del campeggio. Ricordo ancora la faccia di mia moglie nell’apprendere che per urgenti motivi di servizio ero atteso tempestivamente a scuola.

Trovai il laboratorio in uno spaventoso, incomprensibile disordine. Del tecnico di laboratorio ‒ un proverbiale lavativo ‒ che per dovere d’ufficio avrebbe dovuto rimetterlo in ordine per la pausa estiva, nessuna traccia. In compenso, il preside aveva convocato i tre docenti di laboratorio per infliggere indebitamente ad essi i doveri del tecnico.

Ce la cavammo con un pomeriggio di lavoro e di silenziose contumelie, ma purtroppo la vicenda ebbe uno strascico penoso.

Qualche mese più tardi, dopo il rientro dalle vacanze, il tecnico rimase fulminato da un ictus. Per molto tempo dovetti sopportare un vago senso di colpa per quella sciagurata fine che sembrava legata in qualche modo al mio stato d’animo verso di lui in quell’afoso pomeriggio di luglio.

Si è trattata, però, dell’unica volta nella mia carriera. In tutti gli altri casi il primo giorno di luglio, di solito, coincide con l’inizio di una lunga e deliziosa parentesi nei doveri scolastici, dovuta in parte al diritto sindacale, e in parte ad una caratteristica, una anomalia, un privilegio – chiamatelo come volete, insomma, ma nessuno può negarlo – della professione di docente.

Se determino perciò il rapporto h1 fra il numero di ore (986) dedicato in media ogni anno ai già nominati doveri e i giorni contenuti nelle altrettanto nominate settimane (44), impiegando la seguente formula:

ottengo proprio il valore di quella frazione quotidiana di vita che ho dedicato al lavoro scolastico in questi ultimi sette anni.

Il risultato è 3,20 ore al giorno In questi ultimi sette anni, dunque, ho dedicato poco più di tre ore ogni giorno alla scuola. L’ho fatto tutti i giorni, feste comprese, perché buona parte della domenica è sempre stata spesa per la correzione delle relazioni, dal primo settembre fino al 30 giugno.

È tanto? È poco? È giusto?

Per rispondere a queste domande provo a fare il confronto con un astratto lavoratore che è impegnato per otto ore al giorno.

Le otto ore costituiscono nell’immaginazione comune la tipica giornata lavorativa, e quindi possono essere assunte come giudizioso elemento di paragone. Naturalmente occorre considerare 48 settimane, perché in questo caso la parentesi di ferie è pari a 4 settimane.

Il numero di ore lavorative giornaliere h2 di chi lavora le otto ore al giorno si può determinare con la seguente formula, pensando ad una settimana corta di cinque giorni:

Il risultato è 5,71 ore al giorno. Ora, se per amore dei numeri tondi aggiungo un 3% ad h1 (voglio considerare che ho dimenticato di segnarmi qualche ora di lavoro) e tolgo la stessa percentuale ad h1 (non ho considerato le festività) ottengo 3,31 ore contro 5,52 ore; in questo tale il rapporto h1:h2 vale giusto 3:5.

Non posso nascondere che la diversità è evidente. In questi ultimi sette anni ho lavorato nella scuola per circa 3/5 del tempo di chi lavora, in qualsiasi altro luogo, le otto ore al giorno..

A questo punto dovrei procedere al secondo passo del mio ragionamento, come ho spiegato prima, ovvero dovrei mettere in relazione il mio stipendio con quello di chi lavora le otto ore al giorno con mansioni e responsabilità confrontabili con le mie. Solo a queste condizioni, infatti, potrei giungere a qualche utile conclusione sul valore etico del mio impegno e sull’equità sociale del mio compenso.

Preferisco non avventurarmi su questo terreno, perché mi sembra che il discorso mi porterebbe troppo lontano. Dopotutto, credo di aver risposto con molta precisione alla domanda su quanto lavora un prof, almeno per quanto riguarda me, e questo mi basta.

Aggiungo solo una riflessione: la bella storia di Chuang-Tzu parla del suo compenso ma tace sul suo lavoro. Ebbene, io non posso evitare di pormi la domanda:

Ma quanto ha lavorato Chuang-Tzu?