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Inverno: la riflessione

28. Nessuno fa ogni giorno osservazioni e proposte intelligenti

Eccomi di nuovo, dunque, con il foglietto delle topiche fra le mani che affronto le croci e le delizie delle osservazioni e delle proposte studentesche.

Ricorro prima di tutto all’Annunzio sidereo per domandarmi, per l’ultima volta, come si è regolato Galileo in questa specifica circostanza. Ebbene, anzitutto bisogna notare che nell’Annunzio sidereo non c’è alcuna traccia di risultato nel senso rigoroso e quantitativo del termine che ho cercato di spiegare e che chiedo sistematicamente agli studenti, però ci sono delle osservazioni:

Queste sono le osservazioni sui quattro Pianeti Medicei, di recente e per la prima volta da me scoperti; e sebbene da esse non ancora sia dato ricostruire in dati numerici i loro periodi, è lecito almeno mettere in evidenza alcuni fatti degni di attenzione.

Con queste parole Galileo apre il breve discorso di conclusione dell’Annunzio sidereo, dove non c’è alcuna traccia di risultato nel senso rigoroso e quantitativo del termine, come lo stesso Galileo dichiara. Il discorso, d’altra parte, merita una conclusione e l’autore non si sottrae a questo dovere.

Quello che su ciò mi viene in mente, volentieri lo espongo, e direttamente lo offro al giudizio e alla critica degli studiosi.

La lezione dello scienziato pisano, secondo me, è chiara, sebbene implicita: un contributo scientifico può contemplare tre chiuse differenti:

1. un risultato;

2. una conclusione;

3. un risultato e una conclusione.

L’Annunzio sidereo, per esempio, viene chiuso con una serie di conclusioni che incoraggiano e prefigurano precisi risultati (caso 2). Si può ammettere, d’altra parte, che un contributo scientifico giunga ad una preciso risultato (caso 1) e si accontenti di comunicarlo con chiarezza. Infine può darsi il caso di un lavoro nel quale, dopo l’esposizione dei risultati raggiunti si senta il desiderio di aggiungere anche delle conclusione di commento al risultato e di indicazioni per il futuro (caso 3).

Una cosa però è certa: risultato e conclusione non sono affatto sinonimi, e perciò confonderli è un errore. Di questo errore le relazioni degli studenti sono ricche, e devo confessare, ancora una volta, che mi risulta difficile comprendere come essi possano continuare a commettere questo errore dopo che è stato ripetutamente segnalato, spiegato e penalizzato. D’altra parte, mi è capitato diverse volte di adocchiarlo in lavori ben più maturi, non solo nelle relazioni scolastiche dei miei studenti. Peccato.

Agli studenti, comunque, io chiedo sempre un risultato che sia coerente con lo scopo dell’esperimento, ma offro loro anche la possibilità di aggiungere alla relazione delle osservazioni e delle proposte (vedi il ripetutamente citato schema di stesura).

Spiego chiaramente, però, che siccome è difficile per tutti dire sempre delle cose originali e intelligenti, le osservazioni e le proposte vanno intese come una costante opportunità da sfruttare occasionalmente. Una cosa è certa, comunque: per dire delle cose originali e intelligenti è necessario riflettere attentamente sul procedimento e sul risultato dell’esperimento, e questa è una fatica straordinaria che va ad aggiungersi alla fatica ordinaria richiesta per la stesura del rendiconto minimo. Ciò scoraggia molti studenti inclini alla pigrizia che galoppano spediti – e spesso ben sicuri di sé – verso il risultato finale, ansiosi solo di stampare il loro elaborato.

Però vi sono anche degli studenti per i quali le osservazioni e le proposte sono la parte preferita della relazione. È commovente seguire i loro discorsi mentre si slanciano con umiltà e sagacia all’inseguimento di un pensiero che è sorto loro nel corso dell’elaborazione e che vogliono mettere alla prova, dopo aver raggiunto il traguardo del risultato.

È commovente perché, scorrendo quelle righe e quei grafici supplementari, si avverte con chiarezza il piacere del riflettere e dell’argomentare, ma è commovente soprattutto perché si percepisce che quella fatica aggiuntiva è stata affrontata prima di tutto per sé, e solo subordinatamente per il professore. Ora, uno studente che lavora per sé – a rifletterci – è una deliziosa contraddizione, perché si tratta di uno studente per il quale la consegna del docente è un’occasione per fare, invece che un obiettivo da raggiungere. Insomma, è uno studente che non ha bisogno della Scuola, ma tutt’al più di un luogo stimolante in cui crescere. Ma uno studente che non ha bisogno della Scuola non è uno studente: è un piccolo studioso. Ecco perché mi commuovo quando leggo certe relazioni dei miei piccoli studiosi.

Mi commuovo ma anche mi affatico, poiché in genere si tratta di ragazzi dotati, oltre che volonterosi, i quali spesso maneggiano la matematica con disinvoltura, cosicché è difficile talvolta seguirli nei loro ragionamenti. Intercettare un errore in una formula consolidata, infatti, è affare di poco conto, ma ben altra cosa è scovare l’eventuale inganno sul terreno sconosciuto di un’idea originale.

Una volta, per esempio, lo studente Francesco N. cerco di convincermi – dopo essersi convinto egli stesso – di uno svarione cinematico che a prima vista poteva sembrare ragionevole.

Non mi vergogno a dire che ci pensai sopra un bel po’ prima di venirne a capo, anche perché quella circostanza mi aveva stuzzicato a riflettere sopra una questione collegata che per lunghi anni avevo dato per scontata. In un moto accelerato la velocità istantanea varia in continuazione e per questo motivo è difficile da misurare. Allora si misura la velocità media entro un piccolo spazio e la si considera uguale a quella istantanea. Se lo spazio è abbastanza piccolo l’errore è minimo, e fin qui va tutto bene. Ma io avevo sempre detto agli studenti che più l’accelerazione è grande, più lo spazio deve essere scelto piccolo per minimizzare l’errore, cosa che del resto risulta anche piuttosto intuitiva. Niente affatto! L’errore dipende dallo spazio ma non dall’accelerazione, con buona pace dell’intuito e del buon senso.

Li rivedo davanti a me che annuiscono in silenzio mentre io li ammaestro su questa frottola e questo ricordo mi procura un po’ di vergogna. Sia ben chiaro: ai fini pratici la frottola fu del tutto irrilevante, però mi punge l’idea di tutte le frottole che posso aver raccontato ai miei studenti fidandomi troppo del mio intuito e del mio buon senso.

Questa storia edificante, comunque, si concluse con la correzione dell’errore di Francesco, la rettifica del mio pregiudizio cinematico e la socializzazione in classe sia della correzione sia della rettifica, cosicché alla fine ci furono soddisfazione e letizia per tutti.

Come sempre, però, c’è il rovescio della medaglia. Le osservazioni e le proposte valgono due punti nella tabella del criterio di valutazione e quindi si può comprende che essi non fanno gola solo agli studenti più bravi, perché l’interesse – nel duplice significato della parola – è una potente molla per l’iniziativa.

Che cosa fa, allora, uno studente che non è pigro ma non è neppure brillante, per sollevare le sorti della propria relazione? Ovvio: si butta sulle osservazioni e sulle proposte.

Mi tocca leggere spesso, perciò – indeciso fra la costernazione e il divertimento – una lunga serie di vaniloqui e di sproloqui che vengono spacciati per osservazioni e proposte, spesso avanzate in perfetta buonafede, il che rende molto più difficile e soprattutto penoso il rigetto di tante elucubrazioni.

Subito dopo il commento al foglietto delle topiche e la successiva consegna delle relazioni corrette si forma la piccola fila dei questuanti di lumi e di giustizia, di udienza e di grazia.

Gli studenti che non hanno ottenuto l’agognato riconoscimento per le proprie idee sono quelli che chiedono udienza; essi tendono a restare indietro nella fila e contendono gli ultimi posti a quelli che sperano nella grazia.

Per primi vengono quelli che domandano olimpicamente solo qualche ragguaglio, dopo avere incassato un sette o un otto ancora fresco di inchiostro. Sono appagati e distesi e in genere fanno delle domande assai giudiziose. Altre volte, però, giungono interrogativi che aprono lo sguardo del docente su insondabili abissi di ignoranza; e allora è difficile resistere allo sconforto, e dominare la difficoltà di rispondere brevemente e con efficacia a certe domande prive di senso. Sono le domande che vengono dagli studenti più deboli, spesso gentili e volonterosi, che tentano con scarsi risultati di stare al passo con il lavoro.

Ci sono pochi spettacoli più penosi, per un insegnante, della delusione di un bravo ragazzo che proprio non ce la fa a seguire la scuola dove è capitato. Ci mette l’uno tanta buona volontà, ce la mette anche l’altro, ma resta sempre una zona franca fra i due che è fatta di frustrazione e di insuccesso.

Poi vengono quelli che hanno dei torti da farsi raddrizzare, e siccome chi amministra la giustizia è anche colui che ha prodotto il danno, la faccenda è sempre piuttosto ingarbugliata e l’offeso si barcamena fra blandizie e querele – secondo la propria indole – per reclamare una riparazione.

‒ Ma lo sa che ci ho messo un pomeriggio intero per fare questa relazione?

‒ Ti credo, ma evidentemente non è bastato.

‒ Però poteva mettermi almeno cinque…

Molti studenti spesso mi hanno lasciato sospettare che per loro il voto andrebbe assegnato un tanto all’ora, come per la fatica del lavoro dei campi, e in più con un congruo bonus per la buona volontà. È provato, del resto, che per molti di loro lo studio è una entità che si può cumulare a piacere. Ritengono infatti che si possa stare due settimane senza aprire un libro e poi recuperare il tempo perduto con una eroica secchiata.

La cosa davvero curiosa è che molti di loro praticano qualche sport. Ebbene, nessuno di loro penserebbe, neanche lontanamente, che stare seduto per una settimana e poi correre per tutto un pomeriggio – sempre che ci si riesca – sia una saggia pratica sportiva. Eppure con lo studio sembra che possa funzionare.

Gli imploratori di grazia sono pochi, però esistono. Aspettano che tutti gli altri abbiamo liberato il campo dalle proprie minute questioni e poi vengono per chiedere l’impossibile, come per esempio la restituzione di un punto perso per il ritardo nella consegna. Liberarmi di loro non è difficile, il più delle volte, perché mi basta invocare la chiarezza della norma stabilita e la sua inviolabilità.

È assai più difficile – devo ammetterlo – disfarmi dei questuanti, perché con loro occorre argomentare, e spesso a lungo.

‒ Non mi ha dato neppure mezzo punto per le osservazioni… – butta lì lo studente, quasi senza voler dare troppa importanza alla cosa.

‒ No – taglio corto io, dopo aver mangiato la foglia.

‒ Però mi sembrava di aver scritto abbastanza… – insiste cercando di aggiungere alla frase un corteo di puntini di sospensione.

‒ In effetti hai scritto quasi una pagina – ormai sono in trappola: devo spiegare – però hai scritto delle cose insignificanti e qui, vedi? – mostro un gigantesco punto esclamativo rosso – hai anche detto una sciocchezza colossale. Lo capisci?

‒ Però ho fatto anche il disegno… – non si arrende, vuole il guiderdone per la propria fatica.

‒ Non è un disegno originale – correggo pazientemente – è una immagine che probabilmente hai scaricato dall’internet.

‒ Ma nemmeno 0,25 punti? – Il tira e molla può andare avanti a lungo. Sta cercando in tutti i modi di sfibrare le mie resistenze. Con la mamma, a casa, probabilmente funziona. Allora devo giocare il jolly.

‒ Vedi – argomento ieratico – non è importante la quantità di ciò che si scrive bensì la qualità, soprattutto nelle osservazioni e nelle proposte, che sono facoltative. Alle volte bastano due righe per esprimere un concetto importante, ma tu non hai detto niente di importante, anche se hai scritto quasi una pagina. D’altra parte bisogna accettare il fatto che non si possono dire cose intelligenti a bacchetta. Alle volte è meglio rinunciare. Neppure Albert Einstein, che era un genio, si svegliava tutte le mattine con un’idea intelligente in testa, sai chi è Einstein?

Lo sa. E probabilmente sa anche che Einstein ha vinto il premio Nobel, mentre lui, il povero studente, dopotutto si accontentava di un quarto punto. Che cosa mi costava darglielo?