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Inverno: la riflessione

20. La misteriosa necessità di una premessa

Anche senza indulgere in discutibili ubbie matematiche, insomma, la relazione di Galileo mi appare un formidabile aiuto per spiegare agli studenti come essi devono ideare e poi stendere la propria relazione di laboratorio.

Non dico con questo che sia necessario leggere per intero e commentare in classe l’Annunzio sidereo per disporre gli studenti a raccontare adeguatamente un esperimento scientifico; dico piuttosto che l’opera di Galileo costituisce anzitutto per me un prezioso conforto morale; ma inoltre essa è una conferma storica del fatto che esiste una forma necessaria per scrivere una relazione scientifica, e che egli l’aveva scoperta per primo già trecento anni fa, seguito fino ai giorni nostri da una innumerevole schiera di scienziati.

Nei mesi autunnali avevo messo alla prova i miei quattro strumenti didattici:

1. insegnare a scrivere le temperate parole;

2. riempire la preziosa cassetta degli attrezzi;

3. lasciar copiare con la mente, ma non con la mano;

4. esprimere giudizi solidi e perspicui sul lavoro degli studenti.

Ora incominciava l’inverno – non solo metaforicamente parlando – e con esso una lunga e faticosa opera di messa a punto degli strumenti, di riflessione e soprattutto di ostinate spiegazioni. La premessa, per esempio (vedi lo schema di stesura), si prestava a numerosi equivoci e abusi.

Eccomi di nuovo, dunque, con il foglietto delle topiche in una mano e il pacco delle relazioni corrette nell’altra, mentre mi presento davanti alla classe per emendare, precisare, spiegare, raccomandare e – ultimo, ma non meno essenziale – ironizzare affettuosamente sulla spinosa questione della premessa della relazione.

Solo dopo ripetute spiegazioni e raccomandazioni, infatti, qualche studente riconosce che è stato raggiunto alla fine il numero sufficiente di parole inutilmente pronunciate dall’insegnante e si decide perciò a formulare la domanda che ha in mente da un po’ di tempo:

‒ Prof, ma che cosa devo scrivere nella premessa?

A molti studenti sfugge il senso di questa parte del discorso. Capiscono bene lo scopo – anche se poi magari lo sbagliano clamorosamente – ma della premessa non riescono a cogliere la delicata funzione di raccordo fra l’essenzialità dello scopo e il dettaglio che compete al corpo della relazione.

Eppure Galileo si esprime con chiarezza nel proprio Annunzio sidereo. Ecco lo scopo, che altrimenti, o altrove, può essere anche chiamato sommario:

[Avviso astronomico] che contiene e chiarisce recenti osservazioni fatte per mezzo di un nuovo occhiale nella faccia della luna, nella via lattea e nelle stelle nebulose, in innumerevoli fisse, nonché in quattro pianeti non mai finora veduti, chiamati col nome di Astri Medicei.

C’è tutto quello che serve per chiarire lo scopo del testo: non una parola di più, non una parola di meno. Poi il discorso si apre con un asciutto richiamo all’argomento che si vuole trattare: una esplicitazione dello scopo, un riferimento storico, un breve inquadramento teorico:

Bellissima cosa e oltremodo a vedersi attraente è il poter rimirare il corpo lunare da noi remoto per quasi sessanta semidiametri terresti, così da vicino, come se distasse di due soltanto di dette misure; sicché il suo diametro apparisca quasi trenta volte maggiore, la superficie quasi novecento, e il volume poi approssimativamente ventisettemila volte più grande di quando sia veduto ad occhio nudo.

Galileo incornicia il discorso che si accinge a sviluppare: ricorda qual è la distanza fra la terra e la luna, promette di ridurla con l’artificio ottico e riflette, grazie ad un calcolo geometrico, sul sensibile incremento di dettaglio consentito dal nuovo strumento.

Non ha ancora detto nulla di concreto, tuttavia il lettore è già bendisposto verso il discorso – nel significato letterale del termine di posto a proprio agio – per valutare se è il caso di proseguire nella lettura oppure, sulla base di quello che ha appena letto (meno di 450 parole), lasciar perdere. Sarà comunque grato all’autore per non avergli fatto perdere troppo tempo, perché ha letto solo il 4% di tutto il papiro.

Avete capito, ragazzi, a che cosa serve la premessa, e come dovete scriverla?

Come al solito: qualcuno capisce, qualcuno non ascolta. Di solito butto via il foglietto delle topiche dopo che esso mi ha aiutato a fare il pistolotto in classe al momento di restituire le relazioni corrette, ma loro dovrebbero fare tesoro delle mie parole e annotarle con diligenza nella propria galleria degli errori. A volte lo fanno. A volte no. Ma io sono pagato per insistere. E allora insisto.

I tre errori più comuni che fanno gli studenti nello scrivere la premessa sono questi:

1. si allargano a dismisura nel discorso, con richiami che risalgono, nella storia e nella teoria dell’argomento in questione, fino alle più remote scaturigini;

2. ingombrano il discorso di minuti dettagli tecnici che distolgono e infastidiscono il lettore;

3. fanno queste due cose insieme.

Il terzo errore è più raro, ma non è escluso, perché una cosa, almeno, credo di aver imparato stando per tanti anni da una certa parte della cattedra, dopo essere stato per il tempo necessario dalla parte opposta: la fantasia degli studenti nello sbagliare è inesauribile.

Il primo errore, invece, discende da una tentazione alla quale è difficile resistere a casa e che può essere espressa da queste riflessione domestica:

‒ Ecco qua il libro di testo, ecco laggiù l’enciclopedia, dopotutto il prof ha detto che possiamo approfittarne – ma soprattutto – perché non buttare la rete nella Rete? Qualche cosa si pesca sempre.

Chi commette questo errore presenta delle relazioni che cominciano come dovette probabilmente cominciare il famoso discorso di Gesù nel tempio, quella volta che ammaestrò i dottori nella legge: chiaro, pacato, inattaccabile. Le frasi sono ghirlande che intrappolano parole le quali sembrano fiori e pietre preziose. Gli enunciati si susseguono in una incantevole processione, tanto seducente quanto persuasiva.

Poi, improvvisamente, sembra che a colui che ha appena scritto quelle ispirate parole sia venuto un ictus, perché il discorso si fa di colpo traballante, le parole diventano ottuse, il senso del discorso oscuro. È chiaro che qui c’è stato il fatale cambio nel sacco della farina.

‒ Ma perché hai scritto cose che neppure capisci? – domando solo per dovere d’ufficio, dal momento che so perfettamente che non servirà a nulla.

Avere una risposta a questa domanda, infatti, è una cosa impossibile. Io aspetto da anni. Probabilmente c’è un singolare misto di vanità e di disperazione che alletta e costringe lo studente a usurpare discorsi che neppure è in grado di comprendere. Se così non fosse dovrei pensare che quello stesso studente considera il proprio insegnante un perfetto idiota, più o meno come il nonno ormai rincitrullito al quale – ahimè – può lasciare credere qualunque cosa.

‒ Nonno, hai visto la mia relazione?

‒ Bravo, bravo…

Il terzo errore, invece – sembra noioso ripeterlo – c’entra sempre con l’egocentrismo infantile trascinato fin sui banchi del liceo. Magari fino in quinta. Mi sgolo fino allo stremo per ripetere che nulla deve essere introdotto nel discorso se prima non viene adeguatamente presentato e che solo pochi, scelti concetti possono essere dati per scontati. Tutto il resto va spiegato per bene.

‒ Mi spiego?

Non sempre. E poi gli studenti sono astuti. Alle volte nascondono il loro straripante egocentrismo dietro l’aspetto innocuo di un articolo determinativo. Sembra un dettaglio, ma fa una differenza enorme.

Dopo appena due righe di relazione, per esempio, il lettore viene informato del fatto che il tubo era pieno di qualche cosa. Si badi bene, non un tubo qualsiasi, cioè un qualsiasi tubo al quale si possa pensare tranquillamente senza temere di andare fuori strada, bensì proprio quel tubo lì, che obbliga chi legge a considerarsi un colpevole assente ingiustificato all'epifania ove fu mostrato per la prima volta il tubo.

‒ Hai parlato di un oggetto del quale non hai dato una descrizione preliminare. Questo vuol dire che hai dato per scontato che chi legge era presente all’esperimento, ma chi legge ovviamente non c’era…

‒ Peggio per lui – è questo che vorrebbero dire molti di loro, lo so: glielo leggo negli occhi.

Altri, invece, si mostrano più coinvolti, e trasecolano al pensiero che sia buona norma, e qualche volta anche buona educazione, tenere conto di tutti, specialmente degli assenti, quando si compie un’azione. Nessuno sembra averglielo insegnato.

‒ Hai capito perché non devi scrivere il tubo?

‒ Allora lei vuole che scriva un tubo?

‒ Sì, vabbé…