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Autunno: la prova

18. Correggere stanca

Avere un preciso criterio per esaminare i contorti elaborati studenteschi è sicuramente un conforto per la coscienza, però quando hai di fronte a te un pacco di 25 relazioni da correggere ti rendi conto che la strada da fare è ancora tanta prima di poter giungere a quell’atto liberatorio che consiste nel riempire di minuscoli numeri una stretta colonna di caselline sul registro.

Non è possibile impiegare meno di dieci minuti per correggere onestamente una relazione; moltiplicando quei dieci minuti per 25 volte, quindi, viene che devi restare oltre quattro ore su quei sudati fogli, ma in certi casi ho provato a restarvi anche per otto ore suonate. Confesso di aver rimpianto (ma non troppe volte) il tempo in cui questa fatica mi veniva risparmiata.

‒ Perché non le correggi tu le relazioni di laboratorio? – torna a chiedermi ogni tanto nella memoria quel famoso collega – dopotutto, non sei tu il docente di laboratorio?

‒ Mercoledì facciamo Boyle?

Di sudore, spesso, le relazioni degli studenti non rivelano neppure l’ombra, ma questo non toglie che al professore scrupoloso spetti versarne sempre una grande quantità. Ciò avviene soprattutto quando egli sospetta che lo studente sia ricorso a quel succedaneo del sudore che è la furbizia, una materia prima della quale gli studenti sono – o presumono di essere – generosamente forniti.

L’applicazione della furbizia nella stesura di una relazione di laboratorio si sostanzia principalmente nella pratica della copia. Di questa pratica dirò diffusamente più avanti, perché si tratta di un argomento abbastanza interessante che merita un paragrafo a sé (Copiare con la mente, non copiare con la mano). Ma anche se il docente non deve perdere una infinità di tempo per smascherare l’astuzia degli studenti che vorrebbero abusare della sua buonafede rimane il fatto che correggere le relazioni è sempre cosa lunga e faticosa.

La parola d’ordine che ho subito adottato per evitare inutili perdite di tempo è stata organizzazione. Organizzazione nell’esaminare i lavori, organizzazione nell’esprimere i giudizi.

In pratica, ho preparato un foglio di calcolo atto a gestire dal principio alla fine tutto il processo di correzione, automatizzando gli aspetti del lavoro che sono noiosi o esposti al rischio di errori materiali.

In pratica, mentre correggo una relazione attribuisco il punteggio che ritengo opportuno ad ogni voce; non scendo mai sotto la soglia di 0,25 punti, semplicemente perché questa mi sembra una frazione già abbastanza piccola, dimodoché, alla fine di ogni correzione, comunque siano andate le cose, mi ritrovo un punteggio che non risulta mai tagliato oltre il quarto di punto. Se questo avviene approssimo il punteggio per eccesso e attribuisco un voto intero oppure un voto con una frazione che non va mai oltre la mezza unità.

Fin da quanto ero studente, infatti, mi sono posto degli interrogativi che ritenevo assennati ma che non hanno mai ottenuto alcuna soddisfacente risposta da parte dei miei professori. Eccoli:

1. quanto vale esattamente il voto 7+?

2. c’è differenza fra prendere 6 – – e 5½?

3. il raro ma avvistato 6 – – – è più vicino al 5 oppure al 6?

4. se si può prendere 8 – – allora perché non si può prendere anche 8++?

5. i voti 6/7 e 6½ sono due espressioni eteromorfe del medesimo voto?

6. perché per molti professori i voti vanno dal 4 all’8?

7. perché uno studente del tutto impreparato prende 2 invece che 1?

Divenuto professore, ho provato a rivolgere le stesse domande ai colleghi, ma con esiti altrettanto deludenti. Mi si è introdotto nella mente un sospetto, tuttavia, che in certi casi è divenuto una radiosa certezza. Molti professori confondono il giudizio tecnico sul lavoro dello studente con il giudizio morale sullo studente. Temono perciò di ferirlo assegnandogli un due e mezzo, oppure pensano che mettergli un dieci equivalga ad ammettere che è più bravo di loro. Mi sono accorto che qui sta una delle più grandi difficoltà professionali del mestiere dell’insegnante: tenere ben distinti gli aspetti tecnici della valutazione dai comportamenti morali.

Riuscire a comunicare a uno studente che la stima e il rispetto verso di lui sono intatti anche quando il suo lavoro merita oggettivamente il voto uno comporta una difficoltà e una fatica immani, che però vale sempre la pena di affrontare. Sul piano morale non ci sono ricette rapide per ottenere buoni risultati, ma sul piano tecnico aiuta parecchio avere delle idee chiare e semplici.

Ecco perché mi sono disposto, con la dovuta umiltà, ad avviare una mia piccola riforma personale di docimologia che peraltro, una volta tanto, è in perfetta sintonia con le superiori disposizioni ministeriali. Essa prevede pertanto che:

1. i voti vanno dall’1 al 10;

2. non è consentito assegnare alcuna frazione di voto inferiore a 0,5;

3. il passo che separa il 5 dal 6 è lo stesso che separa l’1 dal 2 e il 9 dal 10;

4. anche gli studenti che non promettono per il Nobel possono prendere 10.

Di poche cose sono veramente sicuro, ma sul fatto che gli studenti hanno apprezzato questa sorta di equo temperamento della scala valutativa ci metto la mano sul fuoco.

Una cosa, però, è raggiungere la ragionevole certezza che una determinata relazione merita un certo voto; un’altra cosa, invece, è comprendere che quel voto deriva dalla somma di precise valutazioni parziali. La prima cosa è compito del docente, la seconda è affare dello studente.

Per questa ragione mi sono imposto l’ingrato compito di dettagliare minuziosamente agli studenti, volta per volta, il modo in cui arrivo ad assegnare il voto che poi alla fine si ritrovano sulla relazione.

Uso l’aggettivo ingrato per tre ragioni. La prima è evidente: consegnare ogni volta, insieme con la relazione corretta anche un verbale della correzione comporta un impegno aggiuntivo. Ma dopotutto non è stata una cosa difficile scrivere qualche linea di programma per trasformare ogni riga del foglio di calcolo in un verbale di correzione.

Più ingrati sono quegli studenti che spesso guardano solo al voto e si disinteressano del modo in cui esso è stato determinato (seconda ragione).

Ma l’ingratitudine più fastidiosa (terza ragione) si manifesta in quei casi – rari per fortuna – di ostinata contestazione di singole voci della valutazione.

‒ Perché mi ha dato solo 0,5 punti di inquadramento scientifico? – viene a chiedere talvolta qualche studente con lo spirito con cui si chiede lo sconto al muratore.

‒ Perché non hai saputo esprimere adeguatamente il significato profondo dell’esperimento. E poi perché qui – e mostro con l’indice un rosso punto esclamativo grande come una stalattite – hai detto una sciocchezza.

‒ Ma è stata una distrazione! – insiste lui.

‒ Può darsi. Allora vuol dire che sei stato distratto per una settimana intera.

‒ Uhm…

Perbacco! La collega di storia domani gli darà un voto in orale dopo aver esaminato le interiora degli animali sacrificati all’oracolo, e io devo stare qui a giustificare a questo petulante studente perché gli ho tolto con chiarezza e ragione quel mezzo voto.

Più schietto, una volta, lo studente Stefano Z. mi ha detto senza mezzi termini:

‒ Secondo me, lei prima mette il voto e poi aggiusta il punteggio.

‒ Sarò sincero – gli ho risposto – io procedo così: mentre correggo la relazione metto i punti che mi sembrano adeguati alle varie voci – lo scopo, il grafico, i calcoli – senza sbirciare neanche un po’ la casella del foglio di calcolo dove il programma calcola automaticamente il totale. Quando ho finito la correzione guardo quanto è venuto il totale e mi fermo un istante a riflettere con animo equo, domandandomi se il punteggio riflette la qualità del lavoro. In genere rispondo di sì; quando non lo riflette, però, ciò non avviene mai per più di mezzo punto. In questo caso ritorno sui punteggi e aggiungo o tolgo, dove mi sembra più opportuno, quel quarto di punto che non stravolge il criterio e appaga l’animo equo. Ti ho convinto?

‒ Sì.

Io assegno dunque il punteggio e successivamente lo converto in voto, cambiando in pratica solo il nome del numero. Per esempio: se i punti sono 7 il voto rimane sette; se i punti sono 5,25 il voto diventa cinque e mezzo (l’arrotondamento è sempre a favore dello studente).

Vi sono però alcuni casi in cui questa concordanza non viene rispettata; ciò capita quando la relazione è stata palesemente copiata, oppure quando è stata consegnata in ritardo. Del primo caso ho già detto che parlerò più avanti, mentre del secondo caso dico adesso.

‒ La regola è semplice: al punteggio meritato viene sottratto mezzo punto per ogni giorno di ritardo sulla data di consegna concordata. Domenica compresa.

‒ Domenica compresa? – a questo punto della spiegazione del criterio di valutazione la classe insorge come un sol uomo.

‒ Domenica compresa – confermo senza scompormi – e adesso spiego perché. Mettiamo che la consegna venga fissata per sabato. Tenete presente che la data di consegna segue di almeno una settimana la data di esecuzione dell’esperimento, perciò il tempo per farla non manca. Certe volte, addirittura, può seguire di quindici o di venti giorni (segni di approvazione in aula). Allora, mettiamo che per sabato sia fissata la consegna, ma un certo studente non ce l’ha, magari perché l’ha semplicemente dimenticata a casa (altri segni di approvazione). Che succede a questo punto? Nella migliore delle ipotesi la porterà lunedì; ma chi mi dice che lui, invece, userà il sabato e anche la domenica per fare il lavoro che non ha fatto prima? Per questa ragione conto due giorni di ritardo (segni di viva disapprovazione). Mi comporto così prima di tutto per rispetto degli studenti puntuali: perché loro devono avere sette giorni di tempo e quelli furbi nove? (Contrasti nella classe fra puntuali e furbi).

‒ E se uno è assente il giorno della consegna?

‒ Considero posticipato il giorno della consegna fino al primo giorno del suo rientro (segni di approvazione e qualche risolino isolato).

Impiego una terribile fatica ad applicare questa regola della penalità sul ritardo alla consegna del lavoro svolto, ma sono pronto a giurare che ne vale assolutamente la pena. La fatica dipenda da due ragioni principali:

1. bisogna essere assolutamente inflessibili;

2. bisogna essere indiscutibilmente equi.

È davvero difficile, infatti, illustrare la straordinaria, variopinta, inesauribile quantità di scuse che gli studenti sono in grado di accampare a giustificazione dei loro colpevoli ritardi senza scrivere un libro a se stante.

Combinazioni di eventi degni della fantasia di un librettista esaltato, risorse informatiche che smettono di funzionare in modo da produrre il danno più devastante, gatti avidi di cellulosa, nonne svanite, fratellini vendicativi; tutto questo – ed altro – sembra congiurare sistematicamente contro la puntualità degli studenti. Ho personalmente verificato, per esempio, che nella zona dove è situato il mio istituto si registra una percentuale di cartucce per stampanti difettose che stimo almeno del 300% superiore a quella della media nazionale: una anomalia che meriterebbe sicuramente l’attenzione di qualche associazione di consumatori.

Una volta, invece, venne da me lo studente Marco T. esibendo un floppy disk il cui aspetto lasciava supporre una ripetuta masticazione da parte di un pescecane. Intuii all’istante, senza bisogno di spiegazione, che quei miseri resti contenevano il frutto delle sue febbrili ore notturne spese a stendere la richiesta relazione di laboratorio che il lettore di floppy disk aveva orribilmente martoriato.

Quale che sia la scusa accampata per impetrare una dilazione, tuttavia, la risposta è sempre la stessa:

‒ No.

‒ Ma veramente è successo che…

‒ No.

‒ Prof, lei può anche non crederci…

‒ Difatti non ci credo.

E anche se la scusa è in realtà una vera ragione, la risposta non cambia.

‒ No.

Questa durezza non va disapprovata. Ritengo che si tratti di un rigido ma sopportabile addestramento alla vita di tutti i giorni: l’atto della consegna di un bene o di un servizio è uno degli eventi più apprezzati o più deprecati nella vita sociale, a seconda che esso avvenga o meno con puntualità. Educare gli studenti a rispettare le scadenze in un luogo protetto come la scuola, pertanto, mi sembra un dovere istituzionale primario per educare alla vita sociale.

Dopotutto, a scuola che cosa ti può capitare? Quello scrotoclasta del prof – altro che Peter Pan – ti toglie mezzo punto: poca cosa, in fin dei conti; domani, per una sciocchezza di questo genere potresti perdere qualcosa di molto più prezioso.

In genere gli studenti accettano con spirito costruttivo questa penalità, sebbene abbiano bisogno talvolta di una pausa di riflessione per digerirla. La condizione perché ciò si realizzi, tuttavia, costituisce la seconda ragione di fatica di cui ho detto prima: bisogna che la pena venga inflitta quando la certezza della colpa è inoppugnabile, il che risulta talvolta piuttosto difficile da appurare, o addirittura impossibile.

Quando ciò accade, naturalmente, io mi astengo da ogni intervento. Ma ciò non accade molto spesso, perché mi segno tutti i movimenti studenteschi e sono diventato un assiduo consultatore del giornale di classe, dal quale traggo sicure attestazioni delle loro assenze strategiche. Se qualcuno pensa che tutto ciò sia maledettamente fiscale, allora la mia risposta è:

‒ Sì. Fiscale è proprio la parola giusta.

Accade alle volte che qualche studente venga a farmi il discorsetto che segue, proprio il giorno della consegna:

‒ Prof, avrei qui la relazione pronta, ma sbirciando quelle dei miei compagni mi sono accorto di aver sbagliato tutta l’elaborazione. Preferisco consegnargliela domani, anche se mi costa mezzo punto, perché se la consegno così ne perdo di sicuro almeno uno.

‒ D’accordo – rispondo io senza commenti.

Anche le tasse, dopotutto, le puoi pagare in ritardo con una piccola penale: così e la vita, mi sembra, e se lo impari a scuola è meglio. Sia chiaro: così è la vita nella società degli onesti. In effetti, tutti gli sforzi e le penalità di cui ho parlato rivelano il loro straordinario valore educativo solo nel caso in cui gli studenti siano stati già da tempo indotti dalle rispettive famiglie ad occupare un posto in questa società. Chi mira ad entrare nella parallela società dei furbi, il più delle volte per seguire le orme familiari, non ricava evidentemente alcun vantaggio dalla mie fatiche.

Ebbene, lo studente Andrea V. mi fece un giorno proprio il discorsetto che ho appena riportato e che ovviamente approvai.

Purtroppo, in quel caso il tam tam di classe gli aveva giocato un brutto scherzo perché gran parte della classe aveva sbagliato l’elaborazione dei dati, ma non Andrea, che perse così 1,5 punti: un punto per i calcoli che sbagliò, mentre in un primo tempo li aveva fatti giusti, e mezzo punto per il ritardo.

Così è la vita, l’ho appena detto.