parolescritte
interroga:  scripta  ·  bsu  ·  civita

itinerario verbale


pensieri verbali


Autunno: la prova

14. Il terzo esperimento: tutto è relativo

Bisogna ammettere che una delle idee più difficili da sradicare dalla giovane mente inesperta dello studente è la fiducia sconfinata che egli ripone negli strumenti di misura precisi e costosi. Sospetto peraltro che la locuzione giovane mente inesperta potrebbe essere applicata anche a molti ottuagenari, che hanno vissuto per tutta la vita nella beata illusione che si possa trovare il numero esatto per qualsiasi cosa, ma questo problema, per fortuna, cade al di fuori delle mie incombenze professionali.

A me basta la fatica quotidiana di dover demolire ogni anno fra i quattordicenni – spesso senza riuscirci – l’idea che uno strumento raffinato e prezioso non comporta affatto una misura esatta e neppure una misura necessariamente precisa.

Gli studenti ammettono che il valore della lunghezza di un listello di legno, misurato con uno spezzone di matita, sia piuttosto approssimativo; si assoggettano al compito di quantificare opportunamente l’incertezza di una misura eseguita con un semplice righello, ma si ribellano all’idea che uno strumento molto preciso – e costoso – possa produrre soprattutto incertezza.

L’esperimento è semplice: si inclina di qualche centimetro una rotaia a cuscino d’aria, si fa ripetutamente scivolare una slitta sulla rotaia, facendo bene attenzione a farla partire sempre dal medesimo punto, e si misura il tempo che essa impiega a passare da un primo fototraguardo, disposto sul suo percorso, a un secondo fototraguardo che è disposto circa a un metro di distanza dal primo. Un cronometro digitale con la sensibilità di un millisecondo, comandato automaticamente dai fototraguardi, proclama la deludente risposta: 838 millisecondi, 835 millisecondi, 839 millisecondi, 837 secondi…

Anche questo esperimento, come tanti altri, mette in rilievo che l’apprendimento è sempre un processo collaborativo. Il docente, infatti, può profondere tesori di esperienza e di abilità didattica nel proprio lavoro, ma se il discente non collabora, ovvero se non si dispone attivamente a recepire il nuovo, l’inatteso, il sorprendente, è tutto inutile.

Di norma, gli studenti che adottano un atteggiamento collaborativo rimangono di princisbecco davanti a tutti quei millisecondi ballerini che vengono partoriti da uno medesimo strumento molto raffinato. Quando ciò si verifica è tutto molto facile: l’esperimento è stato significativo, la breccia del dubbio sui luoghi comuni pregressi è stata aperta, grazie anche alla buona disposizione collaborativa.

A me non resta che entrare rispettosamente nella testa dello studente per sostituire le conoscenze fasulle con quelle buone.

Ma è difficile immaginare, in altri casi, quanto possa essere ostinato un quattordicenne nell’abbandonare i propri pregiudizi. I millisecondi possono continuare a salterellare davanti a lui fino a crollare esausti a terra, ma egli non cambierà la propria idea: con uno strumento preciso il valore esatto – anzi giusto – non mancherebbe all’appello. Se il valore manca è perché lo strumento non è abbastanza preciso. Punto. E finiamola, per piacere, con questa noiosa e inutile tiritera di ripetere le misurazioni.

Per spiegare questo atteggiamento io coltivo un’idea un po’ ruvida, alla quale ho già fatto alcuni accenni, per esempio quando ho parlato di incuria e indifferenza, di educazione dogmatica e conformista, di egocentrismo infantile. Adesso vorrei riprendere questa idea in maniera più esplicita e definitiva. Sinteticamente la esprimo così: prima di tutto è colpa della famiglia.

Voglio mettere in chiaro che l’espressione prima di tutto non ha un significato di speciale rilevanza della colpa, bensì ha proprio il significato letterale di precedenza cronologica. Gli insuccessi scolastici degli studenti sono in gran parte una responsabilità prima dei genitori, e poi dei professori. Io la vedo così.

Lascerei stare l’istituzione scolastica, perché penso che sia giusto criticarne i difetti, ma solo dopo aver ammesso con onestà che il servizio scolastico è svolto al novanta per cento dagli insegnanti. Quindi, se qualcosa non va nella scuola, in definitiva, la colpa è loro. Però prima vengono i genitori.

I genitori, per esempio, vengono ai colloqui con i professori per chiedere come va il proprio figliolo, e spesso lamentano con sincera preoccupazione la sua indifferenza verso i libri e la cultura in generale. In questi casi a me viene sempre voglia di chiedere a bruciapelo:

‒ Mi dica francamente: quale percentuale del suo reddito e del suo tempo, in media, lei destina a coltivare la sua cultura?

‒ La mia cultura? – chiese stupito un genitore, quella volta che mi bastò il coraggio per rivolgergli questa domanda.

Sì, la cultura dei genitori. Molti di loro pensano con candore che si possano soggettivamente indurre i figli a studiare

‒ Studia!

senza tenerli oggettivamente a bagnomaria in un brodo di cultura. E guai al primo che adesso ride evocando l’immagine improbabile di dotte veglie serali durante le quali, in famiglia, si leggono i classici della letteratura e della scienza. Non c’è bisogno di leggere insieme Ariosto o Galileo, invece di guardare la televisione, per promuovere la cultura domestica.

È più che sufficiente credere davvero che la cultura sia un potente strumento di successo sociale. Ma la verità è che pochi genitori sono davvero persuasi di ciò, cosicché non si mostrano convincenti quando abbaiano ai figli svogliati

‒ Studia!

Non dico che non ci siano giustificazioni. La cultura occupa un basso rango nei modelli di successo sociale più diffusi e più efficaci, ma io non voglio fare questo discorso perché, secondo me, è troppo comodo. Preferisco prendermela con i genitori, anche perché le loro responsabilità non finiscono qui.

In molti casi essi non sono abbastanza determinati anche nell’evitare il conformismo, ovvero nel promuovere l’indipendenza di giudizio associata a una buona disposizione all’ascolto, e nel contenere l’egocentrismo – a volte devastante – dei propri figli.

Una tiepida disposizione verso la cultura, un atteggiamento conformistico e un robusto egocentrismo possono formare una corazza inviolabile che ricopre lo studente quando arriva a scuola e che rende inefficaci gli sforzi didattici, perché il lavoro dell’insegnante è molto facilitato dalla passione per l’apprendimento, dall’assenza di pregiudizi e dalla volontà di collaborare.

Molto facilitato non vuol dire già fatto, però. E qui potrei incominciare un discorso sulle responsabilità dei docenti nell’insuccesso scolastico dei propri studenti. Ma voglio evitare questo discorso, non perché nego le responsabilità, bensì perché temo di franare su un terreno un po’ desolato. In verità molti genitori spesso chiedono agli insegnanti dei propri figli di dare un po’ meno di quanto possono:

‒ Professore, mi scusi se mi permetto, ma questi argomenti, non le sembra che siano un po’ troppo difficili?

Questa mi appare una richiesta assolutamente intollerabile. In effetti il professore – caso più unico che raro – è il professionista al quale spesso si chiede di dare meno di quanto potrebbe. Nessuno, infatti, si sognerebbe di chiedere al medico di prodigare meno cure, all’architetto di essere meno creativo o all’avvocato di escogitare meno cavilli; ma al professore, invece, sembra che si possa chiedere tranquillamente di essere un po’ meno generoso nel dare e un po’ meno esoso nel chiedere agli studenti. Questa richiesta è semplicemente scandalosa e appartiene al novero delle colpe dei genitori.

Ma allora, se proprio devo esprimere una critica nei confronti dei docenti, dico che la loro colpa più grave è cedere alla tentazione di assecondare questa richiesta, spesso anche in mancanza della richiesta stessa. Perfino lo studente più asino sa distinguere perfettamente fra un professore prodigo e un professore spilorcio, e anche se non vorrà – o non saprà – ricambiare la sua generosità se la ricorderà per sempre, così come ricorderà per sempre, in caso contrario, la sua avarizia.

Dopo aver demolito l’idea che uno strumento di buona qualità e precisione comporta, di per sé, una misura di buona qualità e precisione, posso ammettere senza pericolo il fatto che uno strumento di buona qualità e precisione – come un cronometro digitale al millesimo di secondo – quando viene usato in maniera appropriata, dà risultati migliori di quelli forniti dallo stesso strumento usato in maniera inappropriata. Basta pilotarlo manualmente e poi automaticamente, grazie all’impiego dei fototraguardi, per mettere nel debito rilievo la differenza di qualità delle misure ottenute nelle due condizioni operative.

Né quando il cronometro viene pilotato automaticamente, né tantomeno quando esso viene azionato a mano si ottengono risultati esatti, questo è evidente. Ma nel primo caso si ottengono incertezze minori di quelle che si ottengono nel secondo caso. Sembra un’ovvietà ma si tratta di una conquista epocale per gli studenti, che comporta il passaggio da una concezione primordiale del processo di misurazione, in base al quale una misura può essere o giusta o sbagliata, ad una concezione matura, in base alla quale tutte le misure sono un po’ giuste e un po’ sbagliate e ciò che conta è soprattutto la sfumatura.

Questa sfumatura si chiama incertezza relativa e sorprendentemente è un numero ben preciso, in grado di esprimere la qualità della misura, indipendentemente dalle condizioni in cui essa è stata ottenuta. Credo di non compiacermi mai abbastanza quando mi accorgo che uno studente ha conquistato quest’ardua cognizione.