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Inverno: la riflessione

19. Una relazione storica

Il 7 gennaio 1610 Galileo Galilei fece una delle scoperte più importanti della propria carriera di scienziato; racconta egli stesso (Sidereus Nuncius, p. 133):

Il giorno 7 gennaio del corrente anno 1610, alla prima ora della notte seguente, mentre guardavo gli astri celesti con il cannocchiale, mi si presentò Giove; e poiché m’ero preparato uno strumento proprio eccellente, m’accorsi [...] che gli stavano accanto tre Stelline, piccole invero, ma pur lucentissime.

Per la prima volta nella storia dell’astronomia Galileo aveva osservato tre dei quattro pianeti di Giove.

Non si era trattato però di una scoperta del tutto casuale, come le sue parole lascerebbero intendere a prima vista. Durante l’inverno fra il 1609 e il 1610, infatti, egli aveva deciso di passare “la maggior parte delle notti [...] più al sereno et al discoperto, che in camera o al fuoco” scrutando la volta celeste con l’ausilio del nuovo strumento scientifico che aveva realizzato egli stesso.

Da quel primo fortunato sguardo prese l’avvio una precisa serie di osservazioni mirate che si prolungarono ininterrottamente fino al 2 di marzo e che condussero Galileo alla scoperta dei cosiddetti pianeti medicei. Il resoconto di quella affascinante avventura, come si sa, è contenuto in un breve scritto il quale, oltre a brillare per l’importanza scientifica, viene giustamente considerato un piccolo monumento di concisione e di chiarezza: il Sidereus Nuncius.

Ha scritto in proposito Massimo Bucciantini (Galileo e Keplero, p. 167):

Quelle scarne paginette, scritte in poco più di due settimane, possedevano una forza dirompente. A leggerle ancora oggi non si può che restare ammirati per la concisione ed efficacia dell’esposizione. A ragione il Sidereus è stato paragonato ad un moderno report di laboratorio, in cui è detto l’essenziale e nella maniera più esatta: una vera e propria narrazione scientifica, che fa di quel testo un unicum tra i libri del suo tempo.

La cosa più stupefacente, però – almeno per me – è che io non me ne ero mai accorto. Non dico che non conoscessi quell’opera galileiana, però devo ammettere che ho studiato con più assiduità Il saggiatore, per esempio, o i Dialoghi, ma non ho mai dedicato molto tempo all’Annunzio sidereo dello scienziato pisano.

Galileo è sempre rimasto nei miei pensieri, fin dai giorni dell’università, come un grande nume del mio piccolo lavoro, e spesso sono tornato a leggere passi delle sue opere, ma l’Annunzio sidereo, nella mia impressione, è sempre rimasto confinato fra le opere minori, e non ha mai ricevuto l’attenzione che merita.

Questa distrazione, tuttavia, a pensarci meglio, non mi sembra poi tanto singolare. Di tutte le cose lette e studiate, infatti, ci si ricorda soprattutto di quelle che hanno colpito intensamente la nostra immaginazione per qualche motivo, spesso difficile da spiegare, mentre le altre finiscono rapidamente nella zona d’ombra della memoria. Per tanti anni, se qualcuno mi avesse domandato a bruciapelo:

‒ Quando pensi a Galileo, che cosa ti viene in mente, subito, senza pensarci troppo?

avrei risposto che mi veniva in mente quel passo della lettera a Gallanzone Gallanzoni nella quale Galileo confuta la pietosa spiegazione che Lodovico Delle Colombe diede della rugosità dei corpi celesti, rivelata proprio dalle osservazioni al cannocchiale, che compromisero la perfezione delle sfere celesti.

Si tratta di un ragionamento così sottile ed elegante che non perdo una sola buona occasione per ripeterlo a chiunque, studenti compresi. Scriveva Lodovico Delle Colombe a Cristoforo Clavio in una lettera del 27 maggio 1611:

Mi piace ch’ella in particolare non approvi che la luna sia di superficie ineguale e montuosa, come crede e vorrebbe persuadere il Sig. Galileo.

E poi così ragionava:

Quelle montuosità che appaiono nella luna, possono essere vere, perché mostrano, dall’ombre e lumi e dalle mutazioni di quelle, che siano reali e abbiano le dimensioni corporee, e non siano solo superficiali, come se dipinte fossero. Ma il punto consiste più della differenza tra me ed il Sig. Galileo, ch’egli tiene ch’elle siano nella superficie, a guisa della terra ch’è circondata dall’aria; ed io tengo ch’elle siano per entro quel corpo, e non nella superficie, perché sono parti più dense, e il restante del corpo sia ripieno di parti più rare, sicché sia tutto un corpo, con una sola superficie liscia e in niuna parte diseguale o dentata.

Bella trovata, non c'è che dire. Il Gallanzoni chiese a Galileo di prendere posizione sul ragionamento di Delle Colombe, dopo avergli mandato una copia della lettera, e lo scienziato così risponde, stabilendo in via preliminare un corretto rapporto tra filosofia e scienza:

Questo fo io tanto più volentieri, quanto veggo, questo esser l’ultimo refugio di quei filosofi, li quali vorriano pure accomodare le opere della natura alle loro inveterate opinioni.

Poi entra nel merito della controversia:

Veramente l’immaginazione è bella; solo gli manca il non essere né dimostrata né dimostrabile. […]

Se altri dirà che la luna è circondata sfericamente da un trasparente ma invisibile cristallo, io volentieri lo concederò, pur che con pari cortesia sia permesso a me il dire che questo cristallo ha nella sua superficie grandissimo numero di montagne immense, et trenta volte maggiori che le terrene, le quali, per esser di sustanzia diafana, non possono da noi esser vedute; et così potrò io figurarmi un’altra luna dieci volte più montuosa della prima.

Vado matto per questa risposta di Galileo. Prima di tutto essa contiene un embrione della teoria falsificazionista, perché l’affermazione di Delle Colombe non è dimostrabile – oppure falsificabile, se si vuole – e quindi essa si pone al di fuori del terreno scientifico.

D’altra parte Delle Colombe ha la sfortuna di inventare l’etere con troppo anticipo, anche se il suo acume non discende da un autentico spirito scientifico, bensì dalla volontà di accomodare le opere della natura alle loro inveterate opinioni. Un peccato mortale, in ambito scientifico.

Ma, in secondo luogo, la condanna di Galileo per questo peccato è terribile, tutta intrisa di sagacia e di arguzia fiorentine: Delle Colombe pretende di tornare a levigare il corpo della luna in nome dell’aristotelismo? Faccia pure, ma ecco vederselo restituire dieci volte più montuoso di prima in virtù del suo stesso indimostrabile ragionamento.

Da qualche tempo a questa parte, però, non sono più tanto sicuro che la lettera a Gallanzoni sia ancora il mio primo pensiero galileiano; naturalmente non dico questo perché la forza persuasiva di questo passo si sia affievolita ai miei occhi, bensì perché mi sono imbattuto per la seconda volta nell’Annunzio sidereo, ma questa volta in maniera per nulla distratta.

Che cosa aveva di diverso, questa volta, il testo di Galileo rispetto alla prima volta in cui mi ci sono imbattuto? Assolutamente nulla, è ovvio. Ero io, invece, ad essere cambiato, o per meglio dire ad aver maturato, quasi inconsapevolmente, una sensibilità speciale per questo breve lavoro scritto che rappresenta il primo esempio storico di relazione scientifica.

Devo dire francamente che nell’estate del 1999, quando mettevo a punto le armi per accingermi alla mia nuova impresa di cavaliere scientifico, non pensai neanche un po’ all’Annunzio sidereo di Galileo. In particolare, stesi lo schema di stesura di cui ho già cominciato a parlare rielaborando uno scheletro che avevo visto applicare variamente dai colleghi che mi avevano preceduto. Rimasi meravigliato, però, quando mi resi conto che quello schema di stesura ricalcava molto da vicino il disegno che ritrovavo nel testo di Galileo. Sotto certi aspetti la somiglianza era ovvia, ma sotto altri aspetti mi appariva sorprendente.

L’ossatura della relazione ideale che io cerco di instillare nella testa dei miei studenti è costituita essenzialmente da due elementi:

1. la sequenza ordinata titolo-scopo-premessa-corpo, che deve essere svolta trattando pochi e chiari concetti con una ricchezza espressiva che cresce in maniera esponenziale;

2. la ferrea corrispondenza scopo-risultato, che deve conferire al lavoro una coerenza esemplare.

Ebbene, leggendo attentamente l’Annunzio sidereo mi accorsi che il primo elemento era stato fatto proprio da Galileo già trecento anni fa, mentre il secondo elemento vi era del tutto assente. La ragione di questa lacuna mi sembra tuttavia spiegabile e ne parlerò più avanti; adesso, invece, vorrei concentrarmi sul primo elemento.

Ho parlato di una ricchezza del discorso che deve crescere in maniera esponenziale impiegando questo aggettivo del lessico matematico nell’abusato senso retorico di entità che aumenta in maniera assai ingente; subito dopo, però, mi sono detto:

‒ Si fa presto a dire esponenziale; sto facendo della retorica o della matematica?

Detto fatto. Mi sono preso la cura e – devo ammetterlo – anche il ghiribizzo di contare il numero di parole e di caratteri che costituiscono il testo dell’Annunzio sidereo, classificandole in base alle parti del mio schema.

In realtà, Galileo non introduce delle cesure evidenti nel proprio testo, ma secondo me esse sono facilmente identificabili. Ecco il risultato.

parte del discorso progressione del discorso parole caratteri (senza spazi) caratteri (con gli spazi)
titolo (Sidereus Nuncius) 0 2 15 16
scopo (che contiene e spiega osservazioni di recente condotte…) 1 39 199 237
premessa (Grandi sono invero le cose che in questo breve trattato io propongo…) 2 400 2050 2 444
corpo (Circa dieci mesi fa giunse alle nostre orecchie una voce…) 3 10 014 51 659 61 614
osservazioni e proposte (Queste sono le osservazioni sui quattro Pianeti Medicei…) - 651 3 390 4 040
totale - 11 106 57 313 68 351

A questo punto ho provato a mettere in un grafico i valori della parole contenute nella tabella in funzione della progressione del discorso, e il risultato è questo.

Ho provato sia con il numero delle parole, sia con il numero dei caratteri (spazi compresi o esclusi), ma le parole si adattano meglio ad una funzione esponenziale del tipo:

La funzione specifica è la seguente:

Il coefficiente a della funzione, come si può notare, è uguale a 2 e rappresenta il valore dell’ordinata all’origine, ovvero le due parole del titolo: Annunzio sidereo.

Che cosa dimostra questa formula? Nulla, è evidente; tutt’al più prova il fatto che non uso gli aggettivi a sproposito. Però devo aggiungere che quando ho scelto l’aggettivo esponenziale per designare la progressione della sequenza titolo-scopo-premessa-corpo, per descrivere la struttura della relazione, non credevo che quella parola che sa tanto di numeri si sarebbe adattata alla lettera al discorso di Galileo.