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Inverno: la riflessione

23. È più facile fare che dire: il caso del materiale impiegato

Torno pertanto alla prima ragione che mi ha indotto ad inventare il buffo acronimo lasagna. Esso denomina una apparecchiatura ideata e interamente realizzata all’interno dell'istituto dove insegno. Costruire un manufatto complesso non è una attività alla portata di tutte le scuole perché servono delle risorse materiali, come un ufficio tecnico per organizzare gli acquisti, un magazzino per ottimizzare le scorte, macchine e spazi dove è possibile tagliare, forare, tornire, fresare, saldare; ma soprattutto servono delle risorse umane in grado di dare corpo al progetto. Tutto ciò è possibile solo in una scuola come l’istituto tecnico industriale, ma non è detto che sia una regola. Quando succede, però, alimenta un comprensibile orgoglio e questo spiega la pompa un po’ infantile di questo acronimo. La lasagna, dunque, consente di realizzare in maniera originale due classici esperimenti di fisica:

1. la misura dell’accelerazione di gravità, comunemente denominata g;

2. lo studio della pressione idrostatica.

Quest’ultimo esperimento, però, conduce alla legge di Stevino, che esprime la pressione idrostatica p in funzione della densità del liquido d, dell’accelerazione di gravità g e dell’altezza del battente idrostatico h, ovvero:

Se si considera che la densità dell’acqua, per definizione, è pari a 1 kg/dm3, allora si può dire che, solo numericamente, vale che:

In definitiva, dunque, la lasagna è un doppio gravimetro ad uso didattico.

La parte sinistra dell’apparato consente lo studio della pressione idrostatica (Stevin Apparatus) ed è costituita essenzialmente da due tubi di plastica, uno inserito nell’altro, mentre la parte destra permette più direttamente la misura dell’accelerazione di gravità (Linear Accelerator) ed è costituita da un unico tubo di plastica attorno al quale possono essere fissate, ad altezza variabile, diverse bobine elettriche (nella fotografia se ne possono scorgere due).

Farò una descrizione approfondita della seconda parte più avanti (Ancora lasagne), mentre adesso vorrei spiegare in dettaglio la parte idrostatica.

Sul lato idrostatico della lasagna sono disposti in verticale due tubi coassiali di diverso diametro, in maniera che il primo contenga il secondo. Il tubo esterno è chiuso nella parte inferiore, mentre quello interno, che è leggermente più corto in basso, è chiuso nella parte superiore.

Tramite un tubicino flessibile di mandata dell’acqua è possibile allagare il tubo esterno e, di conseguenza, anche quello interno. Quando l’acqua penetra nell’apparato, tuttavia, non raggiunge lo stesso livello in entrambi i tubi. Entrando nel tubo interno, infatti, l’acqua intrappola una certa quantità di aria che viene progressivamente compressa, ostacolandone perciò la salita.

Al contrario, nel tubo esterno il livello dell’acqua può crescere liberamente perché essa scaccia l’aria senza difficoltà mentre lo riempie. Quando i tubi vengono riempiti progressivamente, perciò, l’acqua raggiunge sempre due livelli distinti, la cui altezza può essere misurata grazie al un metro che corre lungo tutta la lunghezza del tubo esterno. È possibile inoltre misurare la pressione dell’aria contenuta nel tubo interno, grazie ad una sonda di pressione atmosferica che lo sigilla all’estremità superiore.

È evidente che si tratta di una apparecchiatura solo in apparenza semplice. Essa richiede già molta attenzione e cura solo per essere descritta; il ragionamento per risalire dalle misure al modello matematico, poi, è un’impresa che presenta almeno altrettante difficoltà. Ma preferisco sorvolare su quest’ultimo aspetto, perché qui mi interessa soprattutto sottolineare quanto possa risultare difficile la descrizione di un apparato o di uno strumento di misura, soprattutto nel caso in cui non ci si possa riferire a esemplari simili e ampiamente noti.

La descrizione del materiale impiegato per svolgere un esperimento scientifico è un aspetto molto delicato di una relazione di laboratorio perché coinvolge la ripetibilità dell’esperimento e quindi, in definitiva, il suo valore probatorio ai fini scientifici. Questa è una faccenda che gli studenti capiscono con grande difficoltà. Essi sono molto concentrati, magari, sull’esperimento in se stesso, ma tendono a dimenticare l’importanza che si deve attribuire alla descrizione di tutto ciò che ha consentito materialmente di realizzarlo.

Il risultato di questa sottovalutazione si riassume, in genere, nella più imbarazzante omissione da un lato, e nella più esecrabile trascuratezza dall’altro.

Eccomi di nuovo, dunque, con il foglietto delle topiche in una mano e le relazioni corrette nell’altra a cercare di spiegare agli studenti quanto sia importante, in una relazione ben fatta, la descrizione del materiale impiegato (vedi lo schema di stesura).

Anzitutto è importante sottolineare la posizione che devono occupare le brevi o lunghe notizie relative a ciò che è servito per svolgere l’esperimento. Quando elaborai quello schema di stesura pensai che il luogo più opportuno per parlare del materiale fosse dopo che l’esperimento è stato inquadrato nella premessa, e prima di entrare nel dettaglio nella descrizione.

Mi sono accorto successivamente che Galileo, nel proprio Annunzio sidereo, aveva fatto proprio così. Subito dopo aver introdotto il discorso sulle proprie straordinarie osservazioni, infatti, e prima di descriverle minutamente, Galileo dedica una congrua porzione del testo a descrivere lo strumento che ha permesso quelle osservazioni. In altre parole, il corpo della sua relazione incomincia proprio con la descrizione del cannocchiale.

E prima di tutto mi preparai un tubo di piombo, alle cui estremità applicai due lenti, ambedue piane da una parte, dall’altra invece una convessa e una concava.

Colpiscono la semplicità e la chiarezza di questa descrizione; ma quello che io trovo straordinario è il fatto che Galileo descrive lo strumento in forma di racconto, un particolarità sulla quale tornerò più diffusamente parlando in generale della descrizione dell'esperimento.

Galileo racconta ancora, poi, di aver costruito diversi altri cannocchiali dalle caratteristiche sempre migliori, e alla fine avverte coloro che intenderanno seguirlo nelle proprie osservazioni astrali:

Poiché è necessario in primo luogo che si procurino un cannocchiale perfettissimo, il quale rappresenti gli oggetti chiari, distinti e sgombri d’ogni caligine e che li ingrandisca almeno di quattrocento volte, poiché allora li farà apparire venti volte più vicini.

L’atto fondante della deontologia scientifica è compiuto: chiunque vorrà, potrà ripetere e migliorare le osservazioni con il nuovo strumento di osservazione. Di passaggio, vorrei sottolineare il fatto che in questa semplice raccomandazione tecnica è racchiuso per intero il lato straordinariamente egualitario dell’indagine scientifica: chiunque deve poter accedere alle scoperte scientifiche, e il primo che fa una scoperta ha il dovere di mettere chiunque in grado di ripercorrere la propria scoperta.

C’è, d’altra parte, anche il lato della scienza che si potrebbe definire assolutistico: è sufficiente la scoperta di uno solo per vanificare o correggere le idee di una moltitudine. Io vedo in questa gemina natura della scienza il nocciolo della sua superiorità sulla politica la quale, per varie ragioni, non tutte vili, è costretta ad abbracciare il solo principio democratico. Ma qui, forse, mi sto allargando un po’ troppo.

Il caso del cannocchiale di Galileo può sembrare un caso limite: dopotutto lo scienziato descriveva uno strumento scientifico assolutamente nuovo, il che rappresenta una circostanza abbastanza comune nella ricerca di frontiera, ma costituisce un caso del tutto eccezionale in un laboratorio scolastico. Però può accadere; e in effetti con la lasagna è accaduto.

Non stupirà apprendere che le descrizioni dell’apparato svolte in genere dagli studenti sono a dir poco deliranti. Qualcuno, in effetti, si sforza di non dimenticare che pochi altri – al mondo – hanno visto quella misteriosa coppia di tubi di plastica, ma il risultato è comunque un indicibile vaneggiamento.

Vorrei mettere bene in chiaro che la maggioranza di loro capisce come funziona quell’arnese, per tre buone ragioni:

1. perché non sono degli idioti;

2. perché impiego due ore per spiegarglielo;

3. perché stanno attentamente ad ascoltarmi, consapevoli della posta in gioco.

Poi fanno l’esperimento, raccolgono i dati, li elaborano e scodellano il risultato. Tutto – o quasi – in genere va per il verso giusto; tutto, tranne la descrizione futurista della lasagna. Non li aiuta neppure lo schema che disegno alla lavagna, e che nella figura è mostrato a sinistra.

Gli studenti lo copiano, ma poi molti di loro preferiscono riportare una propria, personale rappresentazione dal doppio tubo che rende ancora più difficile – se possibile – la comprensione della struttura e del funzionamento dell’apparato, perché essa è soggetta al solito peccato originale di egocentrismo, riproposto in veste grafica.

Le proporzioni dell’apparato, per esempio, raramente sono rispettate e mai questa licenza viene dichiarata. Le diverse parti, perciò, hanno spesso dimensioni e numero di dettagli proporzionali all’importanza soggettivamente attribuita dallo studente: il computer, per esempio, neppure compare nella figura presentata, ma questo non importa: il computer è il loro computer e perciò non gli deve mancare nulla. Ecco dunque riprodotti in dettaglio il video, l’unità centrale, la tastiera e perfino il mouse. Il metro che corre parallelo al tubo per tutta la sua lunghezza, invece, viene giudicato un dettaglio marginale: dunque si può farne a meno. Il fatto che da qualche parte serva una scala graduata per eseguire le misure di altezza della colonna d’acqua è un particolare che viene lasciato alla sagacia dell’osservatore.

Sarò sincero: è un’impresa disperata. Descrivere esaurientemente la lasagna – con o senza la rappresentazione grafica – costituisce un’impresa disperata per uno studente di prima liceo, un’impresa che va oltre il limite delle sue possibilità. E per un docente? Già, perché si fa presto a titillare la propria vanità di fronte allo studente in difetto di elocuzione:

‒ La tua descrizione della lasagna sembra scritta da Marinetti: sono parole in libertà. Sai chi era Marinetti?

e aspettare la prevedibile risposta:

‒ No.

Ma il docente sa fare molto meglio? Raccolgo perciò la sfida con una condizione particolarmente gravosa: descrivere l’aspetto e il funzionamento della lasagna senza ricorrere alla rappresentazione grafica.

Ci ho messo un’ora per scriverla, e non saprei dire quanto altro tempo per perfezionarla. A dire il vero, dopo i primi cinque minuti la descrizione era pronta, però lasciava a desiderare da tutte le parti. Qui era confusa, là era carente, laggiù era perfino equivoca. La tentazione di dire le cose a propria immagine e somiglianza, infatti, non è una esclusiva studentesca: ci caschiamo tutti. La differenza, semmai, sa nell’accorgersene per tempo.

Allora mi sono rimboccato le maniche e ho cercato di migliorare la prima stesura. Purtroppo quando si tenta di spiegare adeguatamente un dettaglio tecnico, oppure un concetto scientifico, spesso si finisce per imbozzolarsi in una rete di subordinate che alla fine soffoca il pensiero. I periodi assumono l’aspetto di fortezze inespugnabili. In tal caso non c’è che da provare e riprovare per rendere accessibile il discorso – mentre i minuti passano – cercando di ottenere un risultato quasi impossibile: massima quantità di informazioni, minimo volume.

Scrivere una descrizione accettabile della lasagna, insomma, è stato un lavoro piuttosto impegnativo, ma è stata anche un esercizio di umiltà di fronte al balbettio degli studenti. Si fa presto a dire parole in libertà.

Quando ho finito di stendere la versione definitiva della descrizione ne ho fatto alcune copie e l’ho fatta leggere agli studenti, lentamente. Mi è rimasto impresso nella memoria lo sguardo dello studente Emanuele P., dopo quella lenta maratona. Sembrava ridere, e credo volesse dire:

‒ Allora si può fare…

Sì, ragazzi, si può fare. Voi avete scritto dei farneticamenti nelle vostre descrizioni, ma ora riconoscete che questa cosa si può fare; solo che voi non la sapete ancora fare.

Imparare è più facile, credo, quando si è confortati dal pensiero che qualcuno, che si prende cura di te, ti mostrerà per primo ciò che si attende dalla tua fatica.