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Primavera: la maturità

41. La legge del supermercato

Una buona parte del programma della quinta classe è occupato dagli argomenti di elettrologia, perciò buona parte del lavoro in laboratorio verte su questo tema. La versione elettrostatica della bilancia di torsione, che serve a misurare le forse elettriche, dopo aver provato le difficoltà e le delizie della gravità (Ma allora è vero!), sembra quasi una stadera.

Misurare gli effetti della forza elettrica, incomparabilmente più intensa di quella gravitazionale, sembra quasi un gioco da ragazzi, e toglie quell’aura di mistero che ha circonfuso la rivelazione della forza di gravità.

Ma la difficoltà a scrivere la relazione rimane la stessa, anzi forse è più grande. Dovendo spiegare la prima volta il funzionamento della bilancia di torsione, distribuisco in classe una parte della relazione, quella che ne descrive l’aspetto e il funzionamento. Questa descrizione è corredata da un disegno schematico che gli studenti copiano con la mente e, per evitare sorprese, anche con la mano (Copiare con la mente, non copiare con la mano). Un tale favore, però, non si ripete con la versione elettrostatica della bilancia, della quale gli studenti devono stendere una descrizione autonoma, affidandosi solo a ciò che vedono in laboratorio.

Ancora una volta, per molti di loro, questa è l’occasione per dare una prova ulteriore del proprio invincibile egocentrismo. Oramai giunti alla maggiore età, padroni per legge di governare se stessi e di decidere destino politico del proprio paese, si applicano ancora al disegno del complesso apparato come già si applicavano all’asilo a ritrarre la propria famiglia, ovvero dimostrando quella disarmante carica di soggettività che faceva esclamare alla mamma:

‒ E questo cos’è? – notando nel ritratto una piccola massa informe in posizione eccentrica.

Al che essi rispondevano candidamente:

‒ Giulio! – nominando il fratellino giunto da poco a insidiare la primogenitura.

Guardare troppo le cose dal proprio punto di vista: ecco un primo peccato di conformismo scientifico, contro cui ho cercato strenuamente di combattere.

Un secondo peccato, invece, è guardare troppo le cose da un punto di vista consolidato. In questi ultimi anni ho preso l’abitudine di raccontare brevemente, in seconda classe, la storia della termometria per mostrare agli studenti che le nozioni che essi estraggono bell’e pronte dalle pagine dei propri libri di testo sono costate innumerevoli ripensamenti e cambi di prospettiva, prima di consolidarsi in un sapere comune e condiviso.

Primo fra tutti viene – come quasi tutti ignorano – Carlo Renaldini, un allievo di Evangelista Torricelli il quale già nel 1694 propone di ricorrere alla fusione del ghiaccio e all’ebollizione dell’acqua per ricavare i punti fissi della scala termometrica. Bravo Renaldini. Il termometro era cosa fatta già trecento anni fa.

Macché. Nel 1701 Isaac Newton propone di usare una scala che va da 0 a 12, cioè dalla temperatura della “neve fresca quando sta fondendo” alla temperatura del corpo umano. Non è stata l’idea migliore di Newton, diciamolo.

Qualche anno dopo il danese Ole Rømer scopre l’acqua calda – anzi, bollente – e propone di nuovo l’idea di Renaldini: ghiaccio e acqua che bolle per i punti fissi. Peccato che secondo Rømer la scala dovrebbe andare da 7,5 a 60 cosa che non appare una scelta comodissima. La necessità dei punti fissi è fuori discussione, ma sulla loro distanza, e soprattutto sul numero di suddivisioni con cui separarli, la questione è aperta.

Nel 1724 Gabriel Fahrenheit propone la propria scala termometrica scegliendo la temperatura di solidificazione di una miscela di cloruro di ammonio e di ghiaccio per il punto corrispondente a 0 gradi e la “temperatura media di un uomo sano” per il punto corrispondente a 100 gradi. Meno male, finalmente una scala centigrada. Purtroppo, pero, sono gradi Fahrenheit, con buona pace della proposta di Renaldini. A questo punto le domande degli studenti, ovviamente, fioccano ma io non ho tempo per rispondere, devo finire di raccontare la mia storia.

Ecco che arriva René-Antoine Ferchault de Réaumur, nel 1730. Decide che il ghiaccio che fonde e l’acqua che bolle sono più pratici del cloruro d’ammonio e dell’uomo sano. Meno male.

Ma poi come si fa a sapere se un uomo è sano? Gli si prova la febbre! Bravo, e con quale termometro? Ci serve un uomo sano proprio per costruirlo, il termometro. Chissà come avranno fatto…

In ogni modo, per fortuna, è arrivato Réaumur. Solo che René-Antoine Ferchault de Réaumur, che evidentemente doveva essere un tipo un tantino snob, visto il nome, la scala termometrica la divide in ottanta parti, mica in cento. Ma perché? Altre domande, è ovvio. Non ho tempo.

Ed ecco, finalmente, l’epilogo della storia: si chiama Anders Celsius il fisico e astronomo svedese, che nel 1742 inventa la scala Celsius, è chiaro. Fa tesoro delle idee di Renaldini (trovare dei punti fissi per la scala), Fahrenheit (dividere la scala in 100 gradi), Réaumur (usare ghiaccio fondente e acqua che bolle per i punti fissi). Bene, finalmente tutto a posto.

Neanche per idea. Celsius aveva proposto di scegliere 0 gradi per l’acqua che bolle e 100 gradi per il ghiaccio che fonde. Da non credere.

Nel 1747 i suoi colleghi dell'università di Uppsala suggeriscono di capovolgere gli estremi. Se c’era già il premio Nobel gli accademici di Stoccolma dovevano darglielo a loro il premio. Sipario.

‒ Allora, avete capito? – domando alla fine, prima di accingermi a rispondere alle innumerevoli domande degli studenti, molte delle quali, purtroppo, resteranno senza risposta per la mia ignoranza – Mai dare nulla per scontato; mai guardare le cose dal punto di vista più ovvio: è sempre tutto più difficile di quello che ci si immagina. Ve ne ricorderete?

Non sempre. L’esperimento dedicato a studiare la caratteristica di un conduttore elettrico, per esempio, si rivela spesso un caso da manuale di esperimento abbastanza semplice che si conclude tragicamente nella relazione, sebbene gli studenti abbiano appreso a trattare questo genere di esperimenti fin dalla prima classe.

Fra la variabile indipendente e la variabile dipendente della funzione che esprime il modello matematico di un fenomeno fisico, spesso, può essere effettuato uno scambio. Per citare ancora – e per l’ultima volta – l’ubiqua legge di Boyle, infatti, è difficile dire in linea di principio quale sia l’una e l’altra variabile.

Si può studiare come varia il volume di un gas al variare della sua pressione, però si può anche studiare l’andamento della pressione al variare del volume. Ma se c’è un caso – almeno uno – in cui questo scambio delle variabili non è sensato, questo caso è proprio lo studio della caratteristica di un conduttore, nel lessico di servizio: legge di Ohm (vedi lista degli esperimenti).

‒ Mercoledì facciamo Boyle con la seconda?

‒ Sì, e giovedì facciamo Ohm con la quinta, chissà se scambiano anche quest’anno le variabili…

La questione è di una semplicità disarmante: può esistere una differenza di potenziale senza una intensità di corrente, ma non può esistere una intensità di corrente che non derivi da una differenza di potenziale. E lasciamo stare, per piacere, la superconduttività

Dunque la differenza di potenziale, in un esperimento di laboratorio scolastico, deve ricoprire per forza il ruolo di variabile indipendente, mentre all’intensità di corrente spetta quello di variabile dipendente. Si scopre quindi, a seguito dell’esperimento che, se tutto va bene,

dove I rappresenta l’intensità di corrente elettrica che circola nel conduttore e ΔV rappresenta la differenza di potenziale applicata ai suoi capi. Naturalmente, come tutti sanno, la legge di Ohm viene comunemente espressa con l’equazione

dove R viene definita resistenza elettrica. Quest'ultima formula è tecnicamente identica alla precedente, ma concettualmente è tutta un'altra cosa.

Questa distanza concettuale è un percorso molto difficile da far percorrere agli studenti nella relazione di laboratorio, perché comporta una trasformazione del risultato sperimentale, distillato faticosamente nella bottega scientifica, in quel prodotto omogeneizzato che si acquista a poco prezzo nel supermercato del libro di testo.

È più semplice allungare direttamente la mano sullo scaffale e mettere il risultato bell’e pronto nel carrello, senza farsi troppe domande sulla filiera scientifica. La sceneggiata si consuma alla restituzione della relazione corretta.

‒ Prof, perché mi ha tolto mezzo punto di inquadramento scientifico? – chiede sempre più d’uno.

‒ Perché tu hai verificato sperimentalmente che l’intensità di corrente è direttamente proporzionale alla differenza di potenziale e poi hai concluso che la resistenza è uguale alla differenza di potenziale fratto la corrente, mentre dovevi…

‒ Perché, non è vero?

‒ Certo che è vero – respiro, abbozzo e sorrido – ma la prima è un’evidenza sperimentale, mentre la seconda è una definizione che si appoggia alla prima perché…

‒ Però è vero.

‒ È vero, ma quello che tu hai trovato sperimentalmente, se vogliamo essere precisi, non è la resistenza, ma la conduttanza

‒ La che?

Un discorso analogo vale in genere per tutti quegli esperimenti nei quali il libro di testo presenta solo il levigato prodotto finale di un lungo e accidentato cammino sperimentale. Per fortuna, però, ci sono esperimenti dove il risultato non si trova al supermercato della legge fisica; il risultato, per così dire, bisogna cesellarlo a mano, come nel caso in cui si voglia determinare la capacità di un condensatore, oppure la pulsazione di un circuito oscillante (vedi la lista degli esperimenti).

Quest’ultima grandezza, per esempio, si ricava prima di tutto osservando con la lente di ingrandimento quello che succede in un circuito dove sono presenti una resistenza, una capacità e una induttanza.

Sembra impossibile che in quel piccolo ammasso apparentemente inerte di metallo e di plastica possa verificarsi un viavai di cariche tanto frenetico. Eppure è così. Il sistema di acquisizione dei dati riesce a catturare lo spettacolare fenomeno che si esaurisce nel volgere di pochi millisecondi e restituisce i valori che serviranno per delineare la fisionomia del circuito, la cosiddetta pulsazione con la quale esso respira elettricamente.

Per quanto si tratti di un fenomeno tremendamente più lento, il pensiero corre alle (oscillazioni smorzate della bilancia di torsione usata per studiare la gravità: lo stesso modo di oscillare (a parte i disturbi introdotti dalla rotazione delle sfere), lo stesso modo di attenuarsi, prima in maniera vistosa, e poi in modo sempre più impercettibile.

Quale meravigliosa corrispondenza naturale. Ormai il corso di fisica volge al termine; mi posso lanciare in una serie di considerazioni sulla sostanziale unità di tanti aspetti del mondo naturale – smorzamento, raffreddamento, rilassamento, decadimento – i quali, nonostante le più svariate apparenze, sono tutti sintetizzati in qualche variante dalla prodigiosa funzione esponenziale:

spesso combinata con la funzione sinusoidale:

Ne ho ricavato anche tre corsi pomeridiani di approfondimento. Erano facoltativi, e per questa ragione vennero seguiti da un manipolo di entusiasti che poi esposero in altrettante manifestazioni ‒ La scienza in piazza ‒ tutto quello che avevano appreso al pubblico dei curiosi. Una cosa molto seria, ma anche giocosa, con tanto di matte dispense preparatorie.

In alto a destra, una apparecchiatura costruita su misura per una rivisitazione dinamica dell'abusatissimo principio dei vasi comunicanti. D'accordo che raggiungono l'equilibrio, ma come? Con un processo che combina la funzione sinusoidale (l'altalena) e la funzione esponenziale (lo scivolo).

Devo ammetterlo: affaticarsi con gli studenti intorno a queste meraviglie, il più delle volte, è proprio un gran bel lavorare.